Buon anno!

Vincenzo D'Anna, già parlamentare

Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce”. Con queste parole il passeggero si rivolge al venditore che vuole vendergli un almanacco, nel bel dialogo che Giacomo Leopardi ci propone sul futuro, nelle sue “Operette Morali”. Il poeta di Recanati, con il suo pessimismo cosmico, cercava di confutare, con la ragione, il senso comune che spinge gli uomini ad augurarsi un domani migliore. Il viandante, alla fine, acquista l’almanacco ma fa ammettere al venditore una verità che accomuna tutti gli esseri umani in virtù della loro pregressa esperienza: quella di non voler vivere una vita identica a quella già vissuta. Ciascuno è consapevole di come abbia trascorso gli anni che gli sono stati dati, e tuttavia sono pochi quelli contenti: è questo resoconto pessimistico ad indurci alla pratica degli auguri e di tutte le consuetudini che ad essi si accompagnano. Non siamo quasi mai contenti di come procede il mondo ma ci auguriamo, con il candore dei bambini, che esso possa realmente cambiare in meglio solo perché subentra un nuovo anno (e un nuovo almanacco che ne computi i giorni). Paradossalmente è la ragione, pessimistica verso la vita già trascorsa, a spingerci verso la superstizione, gli amuleti, le scaramanzie di Capodanno, per esorcizzare il passato e garantirci un futuro migliore. Volgarmente potremmo affermare che la società tecnologica e digitale, razionale e mutevole nel suo complesso, si aggrappa, in quel giorno, a rituali del tutto privi di esattezza e di razionalità. Il desiderio della felicità prevale sul pessimismo della realtà e riabilita, in quelle ore di passaggio da un anno all’altro, l’antica “formula” dell’invocazione al fato, al destino di un avvenire che ci sorrida. Certo non più sotto forma di esorcismi, magie e vaticini dei veggenti, ma con usanze adeguate ai tempi ed ai mezzi di cui disponiamo. Ecco quindi comparire oroscopi, corni e amuleti, vischio ed alloro, botti e fuochi d’artificio, pranzi luculliani e prelibatezze culinarie. L’uomo, insomma, in quei momenti fatidici, torna a manifestare il desiderio, il bisogno di ancorarsi all’irrazionalità di certi gesti particolari e alla forza delle tradizioni tramandate. E’ un bene che sia così, non tanto perché esistano aruspici in grado di prevedere il futuro, né altri strumenti che conferiscano dati certi sul domani, bensì perché il bisogno ancestrale di rinnovare gli auspici riporta tutti gli uomini allo stato di una spiritualità che ancora crede nelle forze sovrannaturali. Ovviamente nulla a che vedere con le celebrazioni religiose che hanno ben altre radici e convincimenti; si tratta, semmai, di un “ascetismo” laico e superstizioso, che crede nel destino e nella benevolenza del tempo. Certo viviamo in un mondo nel quale le macchine ci inducono a credere che tutto sia misurabile e prevedibile, organicamente inquadrato in un progetto razionale. Però, durante la notte di Capodanno, tutto questo viene accantonato: si ritorna a una visione che prescinde dal progresso raggiunto e si affida alla forza del destino, all’imprevisto e all’imponderabile. Non c’è niente di male a essere accomunati a queste pratiche esoteriche. Anzi esse hanno un riflesso positivo perché si fondano su elementi che nulla hanno a che fare con i mezzi che utilizziamo tutti i giorni nella vita. Preghiere laiche fin che si vuole, ma pur sempre trascendenti ed in grado di rinverdire afflati familiari e amicali, sentimenti di benevolenza, di comunanza e di reciprocità nella gioia. Tuttavia l’alba del nuovo anno ci riporterà pian piano alle miserie della quotidianità nel turbine della lotta per l’esistenza e la realtà ci apparirà per quella che razionalmente è diventata. Ognuno allora ridiventerà filosofo di se stesso e guarderà alle cose del mondo dall’angusta visuale dei propri interessi (e degli umani egoismi). Chiesero a sir Bertrand Russell, intellettuale inglese del secolo scorso, ove fosse collocata la filosofia nella vita di un uomo e a cosa essa servisse. Questi rispose che è collocata in una terra di mezzo tra la religione e la scienza, ovvero tra ciò che è ignoto e ciò che è razionalmente noto. Onde per cui nella notte di Capodanno l’uomo tecnologico, cosiddetto moderno, torna, attraverso le congetture filosofiche ed ancestrali, nella terra dell’ignoto e di una religiosità laica ma convinta. In effetti Russell ci indica che la filosofia, come le pratiche e le congetture augurali, non serve praticamente nel vivere quotidiano ma solo a saper porre domande sull’essenza della vita e sul desiderio di una futura felicità. Se tutta la vita è una scelta, saper porre le domande diventa l’unica condizione per individuare le risposte adeguate. In un mondo ancora attraversato da guerre, fame e povertà, epidemie e violenze, non sembra poco sapersi porre il quesito della felicità.
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