I calcinacci piovono anche sulla nostra storia: fermiamoli

Il professor Ernesto Paolozzi

Si stringe il cuore nel leggere l’ennesimo crollo di calcinacci nella Galleria Umberto I di Napoli. Si stringe il cuore perché appare come il simbolo di una decadenza, di un declino che oltrepassa il fatto in sé e per sé già deprecabile. Sembra che a degradarsi sia anche la memoria collettiva e soggettiva della città e di tanti suoi cittadini. La Galleria, come la chiamiamo quasi amichevolmente e affettuosamente, è parte integrante della coscienza dei napoletani, una sorta di coscienza involontaria che si possiede senza saperlo, come la memoria involontaria, quella che ti sorprende all’improvviso senza un perché o un per come razionale. Un colore, un sapore, una luce, un rumore che ti riportano ad un momento della vita, importante o marginale, che credevi di aver dimenticato per sempre. In quel momento non si sfugge alla nostalgia. La nostalgia per questa grande opera che si degrada materialmente e si consuma come luogo simbolico, è nostalgia per un luogo d’incontro, per un crocevia di storia e di storie che caratterizzava l’anima stessa della città. Non era il salotto buono della città, almeno negli anni del secondo dopoguerra, come forse era l’altrettanto bella galleria di Milano. Era anche uno dei salotti buoni, ma era essenzialmente il luogo di incontro di anime diverse eppure unite da quell’inconfondibile senso di comunità che caratterizza (sembra ancora oggi) Napoli. Era il luogo di incontro, lo ricordo benissimo, di tanti attrici e attori, lavoratori del teatro, dello spettacolo. Si andava in galleria per trovare una “scrittura”, come un disoccupato che scende per la campata, che va per il bosco alla ricerca di un lavoro di pochi giorni, di poche ore. Cantanti popolari e semplici orchestrali. Da bambino accompagnato da mio zio incontrai De Crescenzo, il sensibile poeta autore de ‘A luna rossa. Ho l’immagine di quel vecchio signore squattrinato indelebile nella mia memoria. In altri bar si incontravano i tifosi del Napoli, quelli più attivi ma non ancora militarizzatisi in quella vergogna mondiale che sono gli ultrà. Allora come oggi dicevano quasi sempre sciocchezze (lo compresi in seguito), ma erano sciocchezze simpatiche e innocue. Un mondo che se ne è andato, che non dice più niente ai giovani. Un mondo che certo non si può far rivivere e, forse, non sarebbe nemmeno giusto. Rivivere no, ma ricordarlo si. Il ricordo serve a costruire il futuro secondo tratti umani e culturali. Così quegli attori in cerca di una paga che incrociavo da bambino ricordavano, forse, i fasti di quella Galleria-monumento. Costruita in soli tre anni dal 1887 al 1890, inaugurato dal grande sindaco liberale Nicola Amore. E, forse, ricordavano, il Salone Margherita arditamente costruito nei sotterranei della galleria. Il Teatro della Belle Époque di Napoli, fra le capitali in quegli della cultura e della dissolutezza. La vera cultura incrocia sempre la dissolutezza e, assieme, formano la grandezza di un’epoca di una città. Ricordiamolo, per favore, fermiamo i calcinacci, rivitalizziamo quel luogo di incontro. Forse anche i giovani se ne riapproprieranno come sta accadendo per altri luoghi della città. Affianchiamo i turisti nella scoperta della città di Napoli, nonostante tutto.

 

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