Taranta Power, per i 20 anni mega concerto di Eugenio Bennato al Plebiscito

“In città ho scoperto un grande fermento artistico tra gli immigrati: è il miracolo di Napoli”

Eugenio Bennato

Eugenio Bennato è la bandiera della musica popolare napoletana. Attraverso mezzo secolo, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Musicanova e Taranta Power, ha tenuto viva una tradizione che col passare degli anni si arricchisce di nuove esperienze, sensibilità e suggestioni. Un’identità che si trasforma attraverso il confronto senza mai dimenticare se stessa. Il suo suono a metà tra la musica popolare e la world music ha conquistato il Maghreb, dove è stato in tour all’inizio dell’anno. Ora è in giro per le piazze d’Italia con Stefano Simonetta “Mujura” (basso e chitarra acustica), Ezio Lambiase (chitarra elettrica e classica), Sonia Totaro (voce e danza), Mohammed El Alaoui (voce, viola e darbouka) e Francesca Del Duca (voce, batteria e percussioni) e prepara il megaconcerto del primo dicembre, per festeggiare l’anniversario della fondazione di Taranta Power.

A giudicare dal tuo contachilometri la musica popolare è viva e gode di ottima salute.

Sì, ieri sera (sabato, ndr) sono stato in Calabria per un concerto ma adesso penso al prossimo appuntamento, per me molto importante. Il primo dicembre sarò a piazza Plebiscito, a Napoli, per il ventennale della fondazione di Taranta Power. Sarà un grande concerto che vedrà la partecipazione dei grandi maestri della taranta. Ci saranno moltissimi ospiti, musicisti che si muovono nel solco della musica popolare.

Tu sei uno degli artisti più rappresentativi del genere. Cosa significa, oggi, fare musica popolare? Rivolgersi al popolo o salvaguardare una tradizione che rischia di sparire?

Io e Carlo D’Angiò negli anni ’70 abbiamo dato vita a una vera e propria rivoluzione culturale quando abbiamo fondato la Nuova Compagnia di Canto Popolare e Musicanova, ma soprattutto con il movimento che io ho chiamato Taranta Power. La portata di questa rivoluzione culturale è desumibile dai numeri. E’ chiaro che è stato un fenomeno che si è sviluppato parallelamente alla cultura televisiva e, se vogliamo, anche in termini antitetici rispetto ad essa. Eppure raggiunge ancora oggi numeri straordinari. Sera dopo sera io stesso ho potuto notare il fiorire di una nuova generazione che ha ripreso strumenti e tecniche della nostra tradizione. Quando vedo sotto il palco un ragazzino di dieci anni che suona il tamburello, scena tutt’altro che rara, anzi, frequentissima, ho l’impressione che quella tradizione del Sud sia destinata a sopravvivere ancora per secoli. Vedo le ragazzine che si divertono con la pizzica, cosa che fino a qualche decennio fa sembrava quasi scomparsa. Oggi c’è Melpignano che riesce ad attirare centocinquantamila spettatori.

Una volta Napoli era un punto di riferimento nazionale e internazionale per la musica, penso ai grandi maestri, ai liutai, alla musica che conquistava l’Europa e il mondo. Oggi spesso anche chi fa musica a Napoli si ispira agli artisti internazionali.

Guarda, io non condivido questo pessimismo in merito all’autonomia culturale napoletana. A San Gregorio Armeno si lavora alacremente. Sia nel teatro sia nella musica Napoli non smette mai di stupirmi. Improvvisamente esplode una vitalità che spiazza tutti. Mi riferisco, ad esempio, alla Nuova Compagnia di Canto Popolare ma anche a Pino Daniele. Nessun’altra città d’Italia e d’Europa ha espresso cose simili. Pino Daniele è riuscito addirittura a inventare un linguaggio nuovo. La canzone napoletana è talmente ricca che sembrerebbe impossibile da rinnovare, eppure lui ci è riuscito. Napoli è capace di questi guizzi improvvisi, di esprimere una grande creatività. E poi vorrei spezzare una lancia anche in favore dei neomelodici. Ferma restando la loro ingenuità artistico-culturale, rappresentano l’espressione di una spinta trasgressiva rispetto alle leggi della globalizzazione.

Che ne dici delle istituzioni locali, di quelle napoletane in particolare? Sostengono gli artisti locali?

Il Sud dovrebbe scuotersi dal proprio torpore, che lo spinge a non affermare ma, anzi, a mortificare le proprie potenzialità. Penso che sia anche un problema di comunicazione, di mass media. Quanto a Napoli, devo dire che il sindaco Luigi De Magistris è presente, da fan e sostenitore. Questo è un fatto forse pittoresco per qualcuno ma sicuramente positivo secondo me.

La nostra cultura è anche accoglienza, integrazione, confronto con altre culture. Eppure spesso al grande pubblico vengono mostrate solo le storture sociali di Napoli. Siamo ancora un popolo straordinario o ci siamo davvero un po’ abbrutiti?

Non saprei. Quella napoletana è una realtà multiforme. Sicuramente l’apertura ad altre culture è una realtà storica fin dal ’600, quando si facevano le moresche nelle piazze e continua a contraddistinguere il nostro popolo. Non è un caso che da Napoli io abbia avviato anche quella che ritengo una felice intuizione, cioè un’apertura alle culture musicali mediterranee. Qui a Napoli ho scoperto una presenza di immigrati che anche in ambito musicale hanno molto da dire. Un tessuto di grande livello che però era nascosto. Succede anche in altre città ma qui la cosa ha assunto la forma di un vero e proprio miracolo. Questo mi ha permesso di integrare nella mia musica voci del Maghreb, soprattutto.

Hai suonato anche in Nordafrica.

Sì, diverse volte. Lo scorso marzo in tutte le capitali, e la risposta è stata straordinaria. Il che è la prova del profondo rapporto tra le culture del Mediterraneo. Abbiamo suonato nei grandi teatri delle principali città, da Algeri al Cairo.

Eppure pare che in Italia il panorama musicale sia sempre più appiattito, che spesso si preferisca il “pop” internazionale alle specificità territoriali.

Io cerco di mantenere sempre un certo equilibrio, quando scrivo la mia musica, tra modernità, contemporaneità e tradizione. Devo ammettere che è un’operazione difficile, spero di esserci riuscito finora. Però devo constatare che i mass media, e mi riferisco sia ai canali televisivi sia a quelli radiofonici, sono spesso ispirati da logiche di mercato dissennate. A volte ho l’impressione che si arrivi a stravolgere la realtà. I talent ci restituiscono l’immagine di un popolo passivo, pigro. Che nella musica si lancia spesso in imitazioni anche un po’ grottesche. Che insegue tendenze musicali provenienti soprattutto dal mondo anglosassone. E invece poi esiste un movimento, che potremmo definire quello del popolo della taranta, fatto soprattutto di ragazzi giovani che a ogni concerto mi circondano e mi chiedono di ascoltare la musica che stanno scrivendo. Questo mi dà l’impressione che ci sia un grande entusiasmo. Si tratta di un mondo per così dire alternativo e io sono anche contento che lo sia. E’ un mondo che non ha niente a che fare con i talent.

A parte gli show televisivi, ai grandi eventi nazionalpopolari della musica italiana spesso riesce ad arrivare qualche neomelodico, ma la nostra tradizione più vera si vede molto poco.

Guarda, io ho scritto insieme a Carlo D’Angiò, 30 e passa anni fa, un brano che si chiama “Briganti se more”. E’ la canzone più popolare degli ultimi anni. La cantano dappertutto, in moltissime manifestazioni. Le parole le conoscono tutti, eppure non è mai stata trasmessa in radio ed è stata praticamente ignorata dai grandi canali di comunicazione. Però ormai è la canzone di tutti, l’inno del Sud, talmente popolare che a un certo punto ce l’hanno espropriata, dicevano che non l’avevamo nemmeno scritta noi, come succede nella musica popolare che a un certo punto viene attribuita a un anonimo. Devo ringraziare la Rai che autonomamente ha scelto come sigla di una trasmissione che va in onda da molti anni, Linea blu, “Che il Mediterraneo sia”. Questo brano passa per i canali più importanti e quindi il grande pubblico lo ascolta. Altrimenti, con ogni probabilità, lo conoscerebbero in pochi.

 

https://www.facebook.com/EugenioBennatoOfficial/videos/499411690577739/

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome