Napoli, l’esempio turco e le bestemmie di Topolino

Ripensare al racconto di Napoli è uno degli obiettivi che i candidati sindaco dovrebbero darsi per la prossima azione amministrativa, e che in verità si sono dati, anche se in maniera molto confusa. L’amministrazione uscente, in tal senso, ha avuto una coraggiosa idea, quella dell’assessorato dedicato al brand Napoli, che si è interrotta probabilmente per due motivi: mancanza di coraggio nel perseguire la strada intrapresa e qualche errore sulla definizione degli obiettivi dello stesso. Perché l’amministrazione uscente è la stessa che ha promosso lo sportello “Difendi la città” e – forse – a Palazzo San Giacomo hanno fatto un po’ di confusione tra i due concetti. L’abbattere ogni stereotipo – in un’operazione che diventa una sorta di claim di consenso popolare – e promuovere fattivamente azioni a favore della propaganda di Napoli città, azioni capaci di attrarre turisti e investimenti, sono in realtà due concetti agli antipodi e solo ad un osservatore distratto possono sembrare simili.

Spesso, in un altro luogo comune difficile da sradicare, si associa infatti Napoli per similitudine a Barcellona o Nizza. Nulla di più sbagliato: non è certo il mare o il Mediterraneo motivo sufficiente ad avvicinare due città così funzionali a una in cui sembra non funzionare niente. Né tantomeno, nonostante il sangue angioino e aragonese che scorre nelle nostre vene, siamo così vicini a francesi e catalani quanto lo possiamo essere, ad esempio, ai turchi. Ed è ad Istanbul, una città non certo semplice e che a Napoli assomiglia davvero tanto per accoglienza e confusione, dove al caffè si preferisce il cay, che forse dovremmo guardare in tal senso.

Il sistema Istanbul ha permesso alla città sul Bosforo, che non è certo una città semplice e dove criticità ce ne sono, eccome, di essere fresca nominata prima in classifica d’Europa nel 2021 per la prestigiosa Travel + Leisure, a coronarne la sua incommensurabile bellezza oltre ogni retorica e ogni politica. Istanbul possiede lo stesso segreto dell’iconica e fascinosa Dubai, che è vero che è una città ricca e ipermoderna ma che sorge nel deserto e in cui in estate si sfiorano i 50 gradi: è il mostrarsi granitica e compatta nell’immagine all’esterno. Si utilizzano i canali a disposizione per presentarsi e offrirsi al mondo, mostrando il lato migliore di sé. Un lavoro certosino di definizione del brand, comunicazione e tutela dello stesso. Un lavoro di marketing, in linea di massima.

Gli Emiri, così come i turchi, non hanno lavorato guardando al consenso politico con eventuali #sputtadubai. Non è la propaganda l’obiettivo finale; ed è qui che invece si crea il cortocircuito nel (mancato) sistema Napoli. Nel presentare l’offerta, oltre l’abusato termine “oleografia” che invece resta parte integrante di un racconto (si vedano i video istituzionali di promozione del territorio in cui la presenza della pizza è quasi sancita a norma di legge), la lotta al luogo comune e la faida tra guelfi e ghibellini pro e contro città si mescola a una promozione della stessa che dovrebbe svincolarsi da tali logiche e invece ne resta invischiata.

Il resto lo fa la disattenzione. Disattenzione è permettere a una città che si è raccontata come d’accoglienza di vedersi tappezzata di bestemmie cattoliche e cristiane con lo squallido pretesto della denuncia culturale (che poi serve a staccare biglietti per una mostra e nulla più). Che questa azione venga poi perpetrata con complice disattenzione del Comune su spazi d’affissione del Comune stesso per promuovere qualcosa che avviene in una struttura in capo al Comune, poi, arriviamo allo “scuorno”: se in capo al primo de Magistris c’era un’idea funzionale e sicuramente perfettibile, nei giorni del crollo dell’arancione torre di Siloam (per attingere alla ricchissima storia cattolica, a differenza di Topolino che bestemmia) è indispensabile ammettere che sul racconto di Napoli bisogna – per l’ennesima volta – ripartire dalle macerie.

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