“Questo bar è nostro”. Colpo al clan Di Lauro, ordinanza per cinque

Carcere per il boss Vincenzo Di Lauro, per Giovanni Cortese e il figlio Mario, per Umberto Lamonica e Gennaro Bizzarro

NAPOLI – “Il bar è nostro”, ma l’imprenditore si ribella alle logiche criminali, riuscendo a trovare il coraggio per denunciare la camorra e gli estorsori del clan finiscono in manette. Ieri mattina, nell’ambito di un’indagine diretta e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, i carabinieri del Ros del capoluogo e della compagnia di Casoria, hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal gip del Tribunale di Napoli, nei confronti di cinque indagati (di cui tre già detenuti per altra causa), gravemente indiziati del delitto di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Carcere per il boss Vincenzo Di Lauro, 49 anni, alias ‘F2’ in quanto secondo genitori del capoclan Paolo, detto anche Ciruzzo ’o milionario, per Giovanni Cortese ’o cavallaro (53 anni) e per il figlio 21enne Mario, per Umberto Lamonica, 45enne, e Gennaro Bizzarro, 44enne, figlio di Federico Bizzarro, conosciuto come Bacchetella, capozona di Melito ammazzato il 26 aprile del 2004 in quello che, secondo gli inquirenti, fu il primo atto della faida tra Di Lauro e Scissionisti. Vincenzo Di Lauro, Giovanni Cortese e Umberto Lamonica erano già in carcere. Gli indagati sono tutti, ovviamente, presunti innocenti fino a sentenza definitiva.

L’attività investigativa

Le indagini, condotte senza soluzione di continuità dagli investigatori della tenenza dei carabinieri di Arzano nel mese di novembre 2023, hanno trovato la loro genesi nella denuncia sporta da un commerciante di Arzano che ha dichiarato di essere vittima, dall’ottobre 2020, di estorsione da parte di tre soggetti a lui noti appartenenti al clan Di Lauro di Secondigliano. In particolare, l’imprenditore, dopo aver rifiutato di cedere ai Di Lauro il suo bar, era stato costretto dagli stessi a pagare 70mila euro in rate mensili da mille euro ciascuna, garantite da altrettante cambiali che la vittima ha dovuto sottoscrivere e consegnare agli indagati. Ogni volta la vittima pagava una rata si vedeva restituita una cambiale che quindi fungeva da garanzia per il pagamento stesso.

L’illusione e la seconda fase del racket

Le corresponsioni si sono protratte fino al mese di luglio 2022, quando l’uomo ha deciso di cedere l’attività, pensando che potesse cessare l’imposizione. Un’illusione: purtroppo per il titolare del bar non è andata così. Infatti, a gennaio dell’anno scorso, quando lo stesso ha aperto un altro bar in un’altra zona di Arzano, i suoi estorsori sono tornati alla carica, chiedendogli nuovamente la quota estorsiva e minacciandolo di morte al suo rifiuto. Quanto denunciato alla tenenza di Arzano risulta, tuttavia, solo una parte della storia. In effetti, la vittima, sentita dal pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia partenopea, ha successivamente affermato che il clan Di Lauro gli aveva imposto di pagare delle somme a titolo di estorsione già a partire dal 2018 in quanto la famiglia camorristica si riteneva proprietaria della sua attività. Per quanto riscontrato questa volta dai militari del Ros di Napoli, la vittima, intorno ai primi giorni di gennaio del 2019, aveva corrisposto alla cosca di via Cupa dell’Arco 100mila euro in contanti per far cessare ogni loro pretesa, seppur priva di titolo, sul suo esercizio commerciale.

Le dichiarazioni della ‘gola profonda’

A sostegno e prova ulteriore dei fatti anche alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Roselli, alias Frizione, elemento apicale del clan, ex pezzo da novanta della cosca degli Amato-Pagano, riscontrate dai militari del Ros. Gli arrestati, coinvolti nei due differenti episodi estorsivi, sono tutti ritenuti affiliati ai Di Lauro.

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