Violenze in cella, 117 indagati

S. MARIA C.V. – Una data che l’Italia difficilmente potrà dimenticare: 9 marzo 2020. Il premier Giuseppe Conte, a tarda sera, annunciava il lockdown generale. L’intero Paese era diventato ‘zona protetta’. Del Covid-19 si sapeva pochissimo, quasi niente. E faceva paura.

Qualche ora prima dell’intervento del capo del governo, nella prigione sammaritana ‘Francesco Uccella’ andava in scena la protesta di circa 160 detenuti del reparto Tevere: a muoverli era proprio il Covid-19. Dopo aver usufruito dell’orario di passeggio, si rifiutarono di rientrare in cella per manifestare il loro disappunto sullo stop ai colloqui con i familiari, imposto proprio per contrastare il contagio.

Da quel giorno il Belpaese non è stato più lo stesso. E non lo è stato più anche il penitenziario di S. Maria Capua Vetere. Perché il 9 marzo 2020, oltre a sbatterci in faccia il peso della pandemia, ha rappresentato pure l’inizio di uno dei capitoli certamente più controversi e potenzialmente più terribili del mondo carcerario. Una storia che ha visto il suo atto finale consumarsi il 6 aprile con quella che il giudice Sergio Enea ha descritto come una “orribile mattanza”.

Indagando su ciò che è successo in quei 28 giorni (dal 9 marzo al 6 aprile 2020), la Procura di S. Maria Capua Vetere è arrivata a contestare, a vario titolo, i reati di tortura, maltrattamenti e lesioni commessi da alcuni poliziotti della penitenziaria ai danni di decine e decine di detenuti.

Un’attività investigativa complessa, che ieri mattina è sfociata nell’esecuzione di 52 misure Enea, nei confronti di altrettante persone in servizio presso diversi uffici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Campania. Alcuni degli inquisiti rispondono anche di falso in atto pubblico, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio.
Otto sono finiti in carcere: si tratta di Salvatore Mezzarano, Oreste Salerno, Pasquale De Filippo, Michele Vinciguerra, Angelo Bruno, Felice Savastano, Gennaro Loffreda e Antonio De Domenico (sono un ispettore coordinatore del reparto Nilo e 7 assistenti-agenti di polizia, tutti in servizio presso il carcere sammaritano).

Per 18, invece, sono stati disposti i domiciliari: arresti in casa per Pasquale Colucci, Gaetano Manganelli, Anna Rita Costanzo, Salvatore Piccolo (nato il 1964), Giuseppe Conforti, Alessandro Biondi, Angelo Iadicicco, Vincenzo Lombardi, Francesco Vitale, Gabriele Pancaro, Fabio Ascione, Rosario Merola, Raffaele Piccolo (nato il 1973), Andrea Pascarella, Giuliano Zullo, Giacomo Golluccio, Claudio Di Siero e Clemente Mauro Candiello.

Il giudice ha sottoposto anche altri 3 ispettori all’obbligo di dimora. Ordinate, inoltre, 23 misure interdittive della sospensione dell’esercizio del pubblico ufficio (per un periodo diversificato che vai dai 5 ai 9 mesi). Tra i destinatari di tale misura ac’è Antonio Fullone, provveditore dell’amministrazione penitenziaria campana Tra i legali che assistono gli indagati, gli avvocati Giuseppe Stellato, Edoardo Razzino, Raffaele Russo, Carlo De Stavola, Mariano Omarto e Angelo Raucci

Riprendendo il filo dei 28 giorni analizzati dalla Procura, dopo il 9 marzo, il 5 aprile nel carcere sammaritano andò in scena un’altra protesta: ad organizzarla furono i detenuti del reparto Nilo, ma non più per l’oppressione delle misure anti-Covid. Era subentrata, invece, la paura del virus. Un caso di positività registrato nella struttura aveva messo in allarme la popolazione carceraria. Il timore che l’infezione potesse espandersi era forte. Trascorse alcune ore di tensione, però, a tarda sera, la rivolta rientrò: gli agenti riuscirono a mediare e a convincere i manifestanti a smantellare le barricate.

E arriviamo al 6 aprile, all’atto finale, quando all’esito della seconda protesta, hanno ricostruito gli inquirenti, è stata organizzata “una perquisizione straordinaria, generalizzata, nei confronti della quasi totalità dei detenuti ristretti nel reparto Nilo”. Entrarono in azione circa 283 unità, un team costituito sia da personale appartenente alla casa circondariale di S. Maria C.V., sia da agenti del ‘Gruppo di supporto agli interventi’, che è alle dirette dipendenze del provveditore regionale per la Campania. I controlli interessarono 292 carcerati. E parte dell’operazione venne ripresa dalle telecamere dell’impianto di videosorveglianza. Quelle immagini e i numerosi interrogatori resi dalle vittime dimostrano, secondo gli inquirenti, “l’arbitrarietà delle perquisizioni, disposte oralmente” con il principale scopo “dimostrativo, preventivo e satisfattivo, finalizzato a recuperare il controllo del carcere e appagare le presunte aspettative del persone di polizia penitenziaria”. Le perquisizioni vennero eseguite senza alcuna intenzione di ricercare strumenti atti all’offesa, ma per la quasi totalità dei casi, si trattava esclusivamente “di condotte violente, degradanti ed inumane, contrarie alla dignità ed al pudore delle persone reclusive”.

“Senza tema di smentita – ha sostenuto il giudice Enea – si tratta di uno dei più drammatici episodi di violenza di massa perpetrato ai danni dei detenuti in uno dei più importanti istituti penitenziari della Campania”. L’attività investigativa, coordinata dai pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto, supervisionati dal procuratore Maria Antonietta Troncone e dal procuratore aggiunto Alessandro Milita, è stata realizzata dai carabinieri del Comando provinciale di Caserta e della Compagnia di S. Maria C.V., supportati dagli agenti del Nucleo investigativo centrale della penitenziaria di Roma.

Dalle torture all’abuso di autorità passando per le lesioni: 117 indagati

S. MARIA C.V. (gt) – Dai piani alti della polizia penitenziaria campana alla sua base: l’indagine sammaritana complessivamente ha tirato in ballo 117 persone. Tra gli indagati ci sono Antonio Fullone, dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria, dall’agosto 2019 provveditore regionale della Campania, Gaetano Manganelli, al tempo della perquisizione del 6 aprile commissario della polizia penitenziaria del carcere ‘Francesco Uccella’, è Pasquale Colucci, capo del Nucleo operativo ‘Traduzione e piantonamenti’ del centro penitenziario di Secondigliano. I tre rispondono di ‘perquisizione e ispezione personali arbitrarie’ per aver disposto i controlli del 6 aprile 2020 degenerati in quella che il gip Sergio Enea ha definito “un’orribile mattanza”.

E ancora Colucci e Manganelli, in concorso con Tiziana Perillo e Nunzia Di Donato, rispettivamente guide dei Nuclei operativi ‘Traduzione e piantonamento’ di Avellino e di S. Maria C.V., Anna Rita Costanzo e Salvatore Mezzarono, la prima commissario responsabile e il secondo ispettore coordinatore del reparto Nilo, Alessandro Biondi, Giuseppe Conforti, Raffaele Piccolo, Giuseppe Crocco, Angelo Iadicicco, coordinatori in servizio presso l’Uccella, e gli agenti Angelo Bruno, Giuliano Zullo, Vincenzo Lombardi, Massimo Ciccone, Tommaso Calmo, Antonio Cirillo, Antonio Paolella, Alessio De Simone, Giuseppe Bortone rispondendo di tortura e lesioni. Sarebbero stati loro i protagonisti della perquisizione straordinaria nei confronti di circa 292 detenuti del reparto Nilo, portandoli in altre aree della prigione per sottoporli per circa quattro ore “ad una pluralità di violenze, minacce gravi ed azioni crudeli, contrarie alla dignità e al pudore delle perone, degradanti ed inumane”. Manganelli avrebbe pure sottoposto illecitamente quindici detenuti al regime di isolamento preventivo nel reparto Danubio senza una valida giustificazione.

Il reato di tortura e lesioni è contestato in concorso anche a Pasquale De Filippo, Clemente Candiello, Gennaro Loffreda, Andrea Fabozzi, Angelo Ricciardi, Felice Savastano, Eugenio Calcagno, Michele Vinciguerra,, Oreste Salerno, Flavio Fattore, Giuseppe Frattolillo, Andrea Barbato, Giuseppe Acquaro, Antonio Cirillo, Giacomo Golluccio, Paolo Bruno, Salvatore Adamo, Pasquale Nuzzo, Biagio Braccio, Luciano Iavarone, Claudio Di Siero, Franco Pucino, Gabriele Pancaro, Giuseppe Bortone, Pasquale De Filippo, Oreste Salerno, Maurizio Colurciello, Giacomo Golluccio, Paolo Buro, Nicola Nuzzo, Antonio De Domenico, Marco Ciccone, Paolo Maurizio Soma, Sandro Parente, Vittorio Vinciguerra, Andrea Barbato, Fabio Ascione, e Giovanni Camapanile. A Colucci, Manganelli, Perillo, Di Donato, Costanzo, Mezzarono, Biondi, Conforti, Piccolo, Crocco, Iadicicco e altri 85 agenti sono indagati per abuso di autorità contro arrestati o detenuti. Ad alcuni dei 117 indagati sono contestati a vario titolo pure le condotte di falso, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Si tratta di ipotesi di reato gravi, ma, è giusto ricordarlo, ci troviamo ancora nella fase preliminare dell’indagine. Le accuse contestate ai 117 dovranno essere dimostrate, se sfoceranno in un processo, nei vari gradi di giudizio. Fino a quel momento resta la presunzione di innocenza per tutti.

Un recluso sulla sedia a rotelle colpito più volte a manganellate

SANTA MARIA C.V. (Gennaro Scala)– Il giorno era il 6 aprile 2020. E’ in quel momento che 283 agenti si occuparono di una perquisizione violenta all’interno del carcere sammartano. Oltre al personale dell’istituto arrivarono anche gruppi da Secondigliano e Avellino. In tanti erano sconosciuti ai detenuti perché indossavano caschi antisommossa. La procura parla di un puzzle investigativo al quale mancano molti tasselli perché tanti poliziotti ritenuti responsabili dei pestaggi non è stato possibile riconoscerli. Quel 6 aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, fu come vivere l’inferno. Le storie di quei pestaggi si intrecciano in cluster di violenza senza senso. Un detenuto viene colpito con calcio ai glutei, poi viene spintonato e preso a manganellate. Colpito alle spalle da due agenti. Erano le 16:21, l’ora in cui scattarono le perquisizioni e le violenze al centro dell’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere. L’ora precisa si conosce, perché quelle violenze sono state immortalate dalle telecamere di sorveglianza. Stralci di quei video sono agli atti dell’inchiesta. Una sequenza agghiacciante con il ritmo concitato di un videoclip. Erano le 16:40 quando le telecamere hanno documentato un altro pestaggio. Nella sequenza si nota un agente in tenuta antisommossa colpisce con un manganello un detenuto che si trovava su una sedia a rotelle, tale Vincenzo C.. E poi ancora schiaffi in pieno viso o alla nuca, reclusi costretti a tenere la testa bassa. Uno viene accerchiato da sette uomini della Penitenziaria prima di essere centrato con un colpo di manganello. Poco dopo un altro recluso viene trascinato a terra dopo essere stato afferrato per la maglia. Tra le vittime c’era anche un esponente degli Scissionisti di Secondigliano, Raffaele Engheben. Anche lui parla di aggressioni e di percosse subite. Il suo è un racconto a tinte forti: “Nella saletta ricreativa dopo avermi preso per il collo della maglia mi sferrò uno serie dì pugni e schiaffi in pieno viso, lo stesso uomo continuò ad accanirsi su di me anche nel corridoio, per poi affidarmi alle cure di altri agenti”. Un’inchiesta che potrebbe avere risvolti inimmaginabili e unica nel suo genere. Ma le istituzioni non si possono fermare. Sono 36 gli agenti arrivati a rinforzare il personale del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lo riferisce il Sappe che aveva chiesto rinforzi per evitare di mettere in ginocchio la struttura.

Le denuncia fu presentata dal garante Ciambriello: ma no a processi sommari

SANTA MARIA C.V. (Gen. Sca.) – Lo aveva detto. Anzi, lo aveva scritto in una sorta di libro bianco poi consegnato alla procura di Santa Maria Capua Vetere con le sue mani. Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, aveva raccolto in un dossier fotografie e testimonianze del dolore che i reclusi avevano provato e raccontato ai loro familiari. Dopo l’esecuzione dei provvedimenti, Ciambriello commenta così: “In relazione ai gravi fatti di Santa Maria Capua Vetere, oltre alle denunce dei detenuti riguardanti casi di violenza e maltrattamenti, oltre la denuncia che ho presentato personalmente alla Procura, faccio presente che esistono video provenienti dalle telecamere a circuito chiuso che hanno offerto prove concrete di quanto accaduto e le chat tra agenti”. “Qui non si tratta di nuocere al corpo di polizia penitenziaria – aggiunge – Le mele marce, però, vanno individuate e messe in condizione di non screditare più il Corpo cui appartengono e di non alimentare tensioni nelle carceri. Va fatta giustizia, senza se e senza ma. Più volte ho manifestato apprezzamento per il lavoro svolto dagli agenti di polizia penitenziaria e non ritengo che siano venuti meno gli elementi su cui ho fondato il mio giudizio”. Il Garante campano esprime solidarietà alla magistratura che “è arrivata in tempi brevi, a fare luce sugli episodi accaduti in quella giornata del 6 aprile 2020 – conclude – Mi sento comunque di invitare l’opinione pubblica a non cedere alla tentazione di imbastire ‘processi sommari’ prima che i fatti accaduti vengano effettivamente accertati”. “Sono stata insignita del mio ruolo dopo i fatti di aprile – spiega Emanuela Belcuore, garante di Caserta – Durante i primi colloqui, alcuni detenuti mi parlarono di torture subite. Quest’inchiesta è una vittoria anche per tutti quegli agenti penitenziari che, ogni giorno, si recano al lavoro per fare il proprio dovere”. Le reazioni arrivano anche dai sindacati di categoria. “E’ giunto il momento che il Ministero della Giustizia e i vertici del Dap prendano coscienza che il sistema penitenziario necessita di una profonda rivisitazione” specificano dalla Fp Cgil. “Le rivolte – proseguono – sono state la chiara dimostrazione di una gestione organizzativa inadeguata, e in strutture fatiscenti, nel sistema penitenziario”. “Continuiamo ad avere fiducia nella magistratura, ma contestiamo le modalità. I colleghi sono stati presi all’alba per azioni che potevano benissimo essere fatte negli uffici. Non sono criminali, ma appartenenti alle forze dell’ordine” ha specificato Emilio Fattorello, segretario nazionale del Sappe e responsabile della Campania. “Vicini a tutti i colleghi che hanno accusato un colpo che riguarda tutto il Corpo” specifica il Segretario Nazionale del Sarap Roberto Esposito.

“Mio marito detenuto marchiato”

SANTA MARIA C.V (Achille Talarico) – “Chi ha sbagliato è giusto che paghi, anche perché mio marito continua a portarsi dietro le conseguenze di quello che è successo”. E’ combattiva più che mai Flavia, la moglie di un detenuto di 43 anni di Afragola tra le vittime dei pestaggi avvenuti un anno fa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ad opera – secondo la Procura – di alcuni agenti di polizia penitenziaria colpiti ieri mattina da un’ordinanza cautelare. La donna fu tra le prime a segnalare che nell’istituto penitenziario sammaritano stava avvenendo qualcosa di poco chiaro. Tre – interminabili – giorni senza riuscire ad avere notizie del proprio caro e le terribili voci che da ‘radiocarcere’ arrivavano fuori, anche grazie a qualche detenuto nel frattempo uscito. Se i segni delle botte prese sono pressoché scomparsi, ciò che non è andata via è la paura, presente in maniera costante nella mente del marito. “Ancora oggi quando vede più di due o tre agenti insieme inizia a tremare. E’ una fobia che si porterà dietro per sempre, penso”. Da Secondigliano, dove è detenuto per doppio titolo, un definitivo per rapina e una condanna pendente in Appello per tentata estorsione e danneggiamenti, in videochiamata fa sapere alla moglie di essere comunque preoccupato. “Da quando ho denunciato quei fatti – sottolinea Flavia – lui oramai è un detenuto ‘marchiato’”. Sembrano essere rimaste ‘inascoltate’, infatti, le ‘domandine’ effettuate per le attività lavorative. “Ogni sua richiesta viene puntualmente respinta. Lui ha paura che gli possa essere fatto qualcosa. Anzi, di recente è stato anche inspiegabilmente in isolamento. Quando parla con me in videochiamata è sempre guardingo, teme di subire ulteriori ‘penalizzazioni’. Ha saputo dalla tv degli arresti: gli è venuta la pelle d’oca, quasi gli sono scese le lacrime. E’ come se avesse rivissuto in prima persona quei terribili momenti. Ora, però, sia lui che io siamo fermamente convinti chi ha sbagliato deve pagare. Deve essere fatta giustizia. Un anno fa hanno fatto un macello, è stato un massacro. Loro devono dare il buon esempio, invece con questo comportamento perdono di credibilità e fanno perdere fiducia nel Corpo che rappresentano”.

La barbarie del corridoio umano

S. MARIA C. V. (gt) – Se sono in carcere è perché lo Stato ha deciso di privarli della loro libertà. L’hanno persa perché non hanno rispettato le regole che ci permettono di vivere civilmente. Ma la dignità dei detenuti va preservata. Nessuno ha il diritto di togliergliela. Ed invece, stando all’indagine della Procura, la perquisizione del 6 aprile 2020, data dell’orribile mattanza, come l’ha descritta il giudice Sergio Enea, avrebbe sottoposto tutti gli ‘ospiti’ del reparto Nilo, con esclusione soltanto di una sezione, “a pratiche volutamente umilianti”, come quella del “corridoio umano” formato dagli agenti al cui interno erano costretti a transitare indistintamente tutti i detenuti ai quali venivano inflitti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello. Botte che le vittime non riuscivano in alcun modo ad evitare, sia per il gran numero di agenti presenti, dicono gli inquirenti, che per gli spazi angusti dei corridoio e degli altri locali in cui le violenze venivano praticate.

Uno dei detenuti, stando alle immagini raccolte dai carabinieri, venne costretto a percorrere la sala della socialità trascinandosi in ginocchio, per essere malmenato con calci pugni e colpi di manganello. E tra le tante scene strazianti c’è quella in cui lo stesso detenuto, sempre in ginocchio, cercava di proteggersi la testa dalle percosse, venendo volutamente colpito da un agente con il manganello alle nocche delle dita. Violenza su violenza. Una barbarie che in tanti detenuti non avrebbe causato solo ferite sul corpo. Le consulenze tecniche disposte di magistrati hanno rivelato che le persone offese, pure a distanza di diversi giorni dai fatti, “hanno continuato a manifestare disturbi post-traumatici di varia intensità, tutti dipendenti dalle aggressioni subite in occasione della perquisizione straordinaria”. Gli agenti non si sarebbero limitati a pestarli, ma anche a sottoporli a riti umilianti, come l’obbligo della rasatura di barba e dei capelli. Scioccanti le testimonianze delle vittime raccolte nei mesi scorsi dai pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto. “Un agente mi ha picchiato con calci nel sedere”: sono le parole di uno dei detenuti pestati nel reparto Nilo. “E ha preso anche un secchio dei rifiuti e, dopo avermelo messo in testa – ha continuato – mi ha portato in cella umiliandomi con parole e frasi per tutto il percorso”. Lo stesso detenuto ai pm ha parlato anche delle lesioni subite da un secondo poliziotto: “Nella saletta ricreativa, dopo avermi preso per il collo della maglia, mi ha sferrato uno serie di pugni e schiaffi in pieno viso e ha continuato ad accanirsi su di me anche nel corridoio, per poi affidarmi alle cure di altri agenti”.

L’audio che ha fatto scattare l’inchiesta

S. MARIA CAPUA VETERE (gt) – Se l’indagine ha preso il via è grazie ad un esposto del ‘Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà’ datato otto aprile 2020. In quel documento si faceva riferimento a presunti maltrattamenti operati da alcuni agenti ai danni di diversi detenuti del reparto Nilo. Informazioni basate sulle registrazioni di conversazioni telefoniche, diffuse sui social, avvenute tra alcuni ‘ospiti’ della prigione ed i loro familiari. “Ho il cuore a tremila… ci hanno ucciso di mazzate. […] A tutti quanti!”, raccontava al telefono una delle vittime alla compagna. Uno scenario preoccupante che spinse i parenti di quei detenuti ad organizzare il 9 aprile una manifestazione di protesta all’ingresso del penitenziario. Gli elementi riportati nell’esposto, ha chiarito la Procura, trovarono anche riscontro nella visita ispettiva realizzata dal magistrato di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, avvenuta sempre il 9 aprile (ma di sera), nel corso della quale diversi carcerati che si trovavano in isolamento nel reparto Danubio (provenienti dal Nilo) dopo la protesta del 6 aprile, raccontarono le violenze patite. Alcuni, ha messo nero su bianco a Procura, non avevano ricevuto biancheria da bagno e da letto, altri non erano stati visitati nonostante presentassero ecchimosi e contusioni evidenti. E inoltre era stato impedito loro ogni colloquio telefonico con i familiari, che così rimasero all’oscuro di tutto ciò che era successo.

La denuncia del Garante spinse gli inquirenti il giorno successivo a delegare ai carabinieri della Compagnia di S. Maria C.V. l’acquisizione delle registrazioni video disponibili per comprendere la dinamica degli eventi del 5 aprile e, soprattutto, del 6 aprile, “così da appurare le modalità di svolgimento della perquisizione straordinaria”. E quelle immagini, secondo gli inquirenti, sono incontrovertibile: dimostrano “in modo inconfutabile, la dinamica violenta, degradante ed inumana che aveva caratterizzato l’azione del personale impiegato nelle attività, persone difficilmente riconoscibili perché munite di Dpi ed anche, quanto a numerosissimi agenti, di caschi antisommossa, unitamente a manganelli in dotazione ed anche di un bastone. In particolare emergeva che gli sfollagente erano stati utilizzati sistematicamente per percuotere un numero considerevole di detenuti, colpi inferti anche con violenza, in varie parti del corpo”.

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