Enrico e Milena, delitti a confronto

Una riflessione su due omicidi che hanno sconvolto l’Italia: il filo comune è la benzina

Raffaele Gaetano Crisileo
Raffaele Gaetano Crisileo
ENRICO E MILENA: DUE ANGELI IN PARADISO
ENRICO E MILENA: DUE ANGELI IN PARADISO

Tra gennaio e febbraio prossimo nelle librerie il nuovo libro dell’avv. Crisileo “ Enrico e Milena. Due angeli in Paradiso” con prefazione del Patriarca di Gerusalemme Mons. Pierbattista Pizzaballa. La prima presentazione in programma a febbraio a Santa Maria Capua Vetere all’Università durante una lectio magistralis dell’alto prelato arcivescovo.

Introduzione dell’avv. Raffaele G. Crisileo

Continuo con questo mio libro, dopo quello dal titolo “Sulla scena del delitto. Arringhe e Ricordi”, pubblicato nel 2014, una ricerca analitica, dal punto di vista, giuridico e psicologico, nel mondo del processo penale, ed in particolare in quello indiziario.

Un’analisi attraverso i personaggi e i drammi vissuti nei vari processi che ho trattato direttamente e/o indirettamente.

Raffaele Gaetano Crisileo
Raffaele Gaetano Crisileo

Dopo il libro intitolato “Storia dell’Oratoria Forense”, pubblicato quest’anno, in cui sono stato solo coautore del testo presento questo mio nuovo libro che si compone di piu’ parti. Una prima parte descrive il post factum dell’omicidio del giovane Enrico di Monaco, i risvolti giudiziari di quel processo, partendo dal giudizio di secondo grado che stralvolse il primo verdetto, poi le interviste alla mamma di Enrico; a seguire le mie considerazioni e riflessioni e quant’altro ho percepito sia da avvocato di parte civile sia da cittadino su un omicidio orripilante che quindici anni fa sconvolse la città di Santa Maria Capua Vetere.
La seconda parte di questo libro descrive un altro omicidio, quello avvenuto nell’anno 1971, quando io avevo tredici anni e che mi è rimasto particolarmente impresso.
L’omicidio di una giovanissima ragazza, Milena Sutter, all’epoca mia coetanea.
Io non conoscevo Milena, lei era di Genova, ma avevamo ambedue tredici anni.
Pensate, se Milena oggi fosse viva avrebbe sessantuno anni, la mia stessa età.
Rircordo che del caso Milena Sutter tutti parlavano in quel periodo.
Ne si parlava nei circoli, nei bar, per strada, a scuola e anche i mass media di allora davano notizie anche se non erano sofisticati come quelli di adesso e non avevano la risonanza di oggi.

Milena Sutter
Milena Sutter

Ma la notizia comunque fece eco in tutta Italia e all’estero. Pensate che io abitavo nel cuore storico della città di Santa Maria Capua Vetere, in un vecchio palazzotto di famiglia; abitavamo al primo piano e a piano terra c’erano dei locali che avevamo dato in affitto a delle persone.

Quando era l’ora del telegiornale, verso le ore 13.00 sulla prima rete e verso le ore 13.30 sulla seconda, i nostri inquilini venivano da noi, che avevamo una televisione in bianco e nero, per vedere le trasmissioni.

Mi ricordo, perché mi era rimasto impresso, il volto del giornalista che sulla prima rete leggeva le notizie: ho fatto una ricerca per ricordare il suo nome e mi pare fosse Villy De Luca, direttore dal 10 luglio 1967 al 14 marzo 1976.

Il resto della giornata si stava tutti con la radiolina accesa; quella di una volta, alimentata a pila e con l’antennina avvolgibile che si alzava lentamente a scatto per potenziare la ricezione e captare le onde di frequenza.

E questo si ripeteva, come un rituale, tutti i giorni: e poi ancora i telegiornali, i radiogiornali ecc.

Anche la carta stampata non faceva altro che parlare di Milena Sutter, del suo rapimento, della sua morte, del suo tragico assassinio: chi lo può dimenticare!
Ebbene raffrontando oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, quel delitto con quello di Enrico di Monaco, io ritengo che i due casi siano sovrapponibili; siano per certi versi simili tra loro.

In punto di analisi giudiziaria sono stati due omicidi caratterizzati dall’aspetto prettamente indiziario.

Enrico di Monaco
Enrico di Monaco

Come dicevo prima, nel trattare io, come parte civile, il processo per la morte del giovanissimo ragazzo della mia città, Enrico di Monaco, parlando a lungo con il Procuratore Generale di udienza, il dott. Francesco Iacone, che assunse, in secondo grado, la difesa della parte di accusa pubblica, dinanzi alla Prima Sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli, mi resi conto che questa verosimiglianza, che il signor Procuratore sostenne, durante la sua requisitoria, in realtà c’era davvero.

Molti miei amici – ricordo – quando parlai di questo libro che avevo in mente di scrivere e ne illustrai il contenuto volevano che lo intitolassi “Fuel” che, tradotto in italiano, significa carburante, benzina . Ma io ho preferito di no.

0ra non voglio anticiparvi il contenuto di questo mio nuovo libro, gli elementi che contiene, ma credo che il carburante, la benzina, sia stato l’elemento centrale che, in un certo qual senso, ha accomunato i due casi in questione.

Enrico di Monaco
Enrico di Monaco

Dico questo perche’ con una bottiglia di plastica piena di benzina venne incendiata l’autovettura di un vicino di casa di Salvatore Busico, quel tale detto Totore, che incarico’ di tanto Enrico di Monaco; tanto e’ emerso nel giudizio di secondo grado.

Fu quello il movente che spinse l’assassino, mandato da Totore a far uccidere Enrico di Monaco. E il mandante dell’omicidio di Enrico aveva un nome: si chiama appunto Salvatore Busico, un contadino del quartiere Sant’Andrea, rione prettamente agricolo, posto nella periferia sud della città di Santa Maria Capua Vetere.

E sull’altro versante, quello del delitto di Milena Sutter, “fuel” vuol dire sempre carburante; quel carburante che versava in continuazione nella sua auto, la spider rossa, l’omicida che uccise la povera tredicenne Milena. Una giovanetta che, come sentenziato in tre gradi di giudizio, venne uccisa per mano di Lorenzo Bozano, un genovese venticinquenne benestante, definito un “perdigiorno”. Un uomo che non faceva altro che girare con la sua auto per la città durante la giornata e poi nelle ore di punta sostare intorno alla Scuola Svizzera di Genova, frequentata dalla Sutter; proprio da quella quella scuola da cui Milena scomparve quel 6 maggio 1971.

Due processi, quelli a confronto, che a distanza di cinquant’anni, anche se il codice di procedura penale è cambiato, e in questo clima d’incertezza generale continuerà a cambiare, sono del tutto indiziari.

E i due imputati sono stati condannati sulla base di prove squisitamente indiziarie.
Mi piace aprire questo mio libro con una frase di Eugenio Scalfari, tratta dal suo libro: “L’amore, la sfida ed il destino” che mi è capitato di leggere e che recita così  “Come una cascata che mi trasporta a valle, verso un fiume e verso una foce, da allora questa percezione, che chiamo sentimento del tempo, non ha fatto altro che aumentare”.

Orbene, secondo me, il processo indiziario è proprio come una cascata che trasporta l’acqua da valle verso fiume. Secondo me, ancora, per cercare di spiegare meglio e per cogliere quelli che sono gli elementi indiziari di un processo, ovvero gli indizi veri, basta avere solo la percezione di saperli cogliere, nella loro complessità, nella loro totalità,  nella loro gravità, nella loro precisione e nella loro concordanza.

In sintesi cosi si raggiunge la prova indiziaria e si può pervenire alla condanna.
Questo libro ha un obiettivo preciso, l’analisi del processo indiziario nel nostro Paese, partendo da due processi veri, tinti di giallo.

Salvatore Busico
Salvatore Busico

Quello a cui prima abbiamo fatto cenno e nel quale io ho svolto la funzione di patrono di parte civile delle privative ragioni per cui conosco tutti gli atti processuali: mi riferisco a quello a carico di Salvatore Busico, Totore, l’agricoltore sammaritano, condannato all’ergastolo dalla Prima Corte di Assise di Appello di Napoli, il 11 luglio 2014, perche’ responsabile della morte di Enrico di Monaco, un ragazzo diciassettenne, pure lui di Santa Maria Capua Vetere, ucciso, secondo la perizia medico legale, nella notte tra il 24 e il 25 aprile 2005 nella masseria Marzella in Santa Maria La Fossa (Caserta).
Vivaddio!
Il giudizio di secondo grado, emesso l’11 luglio 2014, ha completamente stravolto il verdetto della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere che lo aveva mandato assolto il 3 giugno 2010, ai sensi del secondo comma dell’art. 530 c.p.p..

Le armi dell’avvocato penalista

Nella parte iniziale, mi sono soffermato su quelle che ho chiamato le armi che ha un avvocato penalista in generale per poter affrontare un processo, soprattutto uno squisitamente indiziario.
Ho cercato, in particolare, di soffermarmi sull’eloquenza, sulla persuasione e sulla comunicazione, cercando di portare il lettore all’interno di un dramma.
All’interno del dramma del processo penale dove noi avvocati penalisti dobbiamo essere, per forza di cose, dei “grandi” psichiatri, dei “grandi” psicologi, dei psicologi giuridici e certamente dei “grandi” portatori dei grandi tormenti umani.

Il processo indiziario nel nostro sistema giudiziario.

Non concordiamo con quelli che sostengono che il processo indiziario, nel nostro ordinamento, è il processo del nulla, ovvero un processo senza prove, che non si dovrebbe nemmeno celebrare e che, comunque, non dovrebbe portare a una sentenza di condanna.
Perché se lo dicono gli addetti ai lavori, il loro punto di vista è pretestuoso.
Quando invece una frase del genere viene pronunciata da quelli che popolano le varie trasmissioni  televisive, allora dipende dalla loro conoscenza o misconoscenza della materia.
E allora mi corre l’obbligo di dire la mia, su cosa s’intende per processo indiziario nel nostro ordinamento e su come lo si può definire.
Incominciamo con il dire che la prova indiziaria è una prova indiretta del fatto che ha la stessa efficacia della prova diretta, purché gli indizi siano inseriti in una causale seria e costituiscano anelli di una catena di rapporti naturali costantemente uniformi, plurimi e convergenti che portano verso un’unica interpretazione.
Negli omicidi indiziari trattati nel mio libro mi sono soffermato sul fatto storico e sull’evoluzione procedimentale della causa, analizzando i passi salienti della vicenda nei suoi aspetti logici e cronologici.
Nella discussione (che non si chiama più arringa),tenuta in pubblica udienza, il 7 luglio 2014, in favore della mamma di Enrico di Monaco, da me rappresentata come patrono della parte civile, dinanzi alla Prima Sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli contro Salvatore Busico, ho cercato di mettere a fuoco questi obiettivi.


Quanto al processo di Enrico di Monaco, ho riportato, in questo mio terzo libro, solo la discussione da me tenuta in secondo grado, in quanto la prima arringa, quella dinanzi alla Corte di Assise di Appello di Santa Maria Capua Vetere, il 3 giugno 2010, l’ho riportata nel mio primo libro, come gia’ menzionato dal titolo “Sulla Scena del delitto”. Arringhe e Ricordi, presentato il 3 aprile 2014.
Per entrare nel dramma che andremo a vivere e per analizzarlo, ho voluto anche riportare la commovente dichiarazione/ intervista rilasciata, dietro suo consenso esplicito ai mass media, dalla mamma del povero Enrico di Monaco, dopo avere appreso la notizia della sentenza di secondo grado che condannò all’ergastolo Salvatore Busico, individuandolo come responsabile per l’omicidio di suo figlio Enrico.

Il giorno della sentenza di appello nel processo per il delitto Enrico di Monaco.

Ricordo con estrema precisione (e chi lo potrà dimenticare!) che erano circa le ore 17.00 di quel mercoledì pomeriggio, 11 luglio 2014; eravamo  nell’aula della Prima Sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli contrassegnata con il n. 318 del secondo piano del Nuovo Palazzo di Giustizia di Napoli al Centro Direzionale.
Ad attendere la lettura della sentenza, dopo circa dieci ore di Camera di Consiglio, erano con me i miei collaboratori; vi era uno dei difensori dell’imputato, vi era addirittura lo stesso imputato Salvatore Busico, Totore.
Di fronte a lui, in un lungo corridoio, vi era lo zio di Enrico di Monaco, Gaetano di Monaco.
I due (Gaetano e Totore) erano l’uno di fronte all’altro, e passeggiavano su e giù per il corridoio in preda a un’indescrivibile ansia.
Ambedue, volutamente, facevano in modo che i loro sguardi non si incrociassero, neppure per un istante.
Questo lo notai più volte.
Insieme a me c’era mio figlio Gaetano, che aveva da poco superato l’abilitazione nazionale all’esercizio della professione di avvocato.
Ma il personaggio chiave che era con me, sempre con me, legato a me, era lo zio di Enrico, Gaetano di Monaco.
Lo zio di Enrico, Gaetano, aveva fatto da padre al povero e disgraziato Enrico, fin da quando il ragazzo era in tenera età.
Fu lui che, molte volte, mi aveva confidato di avere avuto, in questi lunghi anni, tanti rimorsi di coscienza verso Enrico che aveva cresciuto da padre e che (questo, forse, era il rimorso che egli maggiormente portava dentro di sé), non era stato troppo, come dire, “accorto ed attento” alle frequentazioni del nipote.
Dicevamo che Gaetano di Monaco e Salvatore Totore Busico erano l’uno di fronte all’altro, passeggiavano in quel lunghissimo corridoio del terzo livello della Torre Centrale del Nuovo Centro Direzionale del Palazzo di Giustizia.
Ma quello che mi colpiva fortemente era questo: vedevo Gaetano di Monaco con le mani giunte, in atteggiamento di preghiera, anzi stava pregando, come lui mi aveva successivamente confidato e chiedeva al Signore la grazia di conoscere la verità sulla morte di suo nipote.
Dall’altro lato del corridoio passeggiava Salvatore Busico, Totore.
Un Totore con uno sguardo che sembrava assente: fu questo soprattutto che attirò tantissime volte la mia attenzione.
Uno sguardo, il suo, che si perdeva talvolta nel vuoto; forse anche gelido.
Uno sguardo, un comportamento indecifrabile perché vedendolo in volto, non riuscivo a capire molto del suo atteggiamento interiore, dei suoi pensieri, delle sue riflessioni.
Ma voglio soffermarmi ancora su Gaetano di Monaco che era intento a pregare, che mi ispirava tanta dolcezza.
E mi sia consentita una riflessione che ritengo appropriata.
Sappiamo che non è una novità che l’uomo porta in sé una sete d’infinito e di eternità; un bisogno di Luce e di Verità che lo spingono verso l’Assoluto.
E Gaetano Di Monaco questo lo sapeva; nel suo intimo lo sapeva ed era profondamente assorto nel suo mondo. 
E quell’atteggiamento del buon Gaetano esprimeva molto; esprimeva molto bene questa sua interiorità e questo suo grande bisogno di rivolgersi all’Alto.
La preghiera porta a un raccoglimento: ecco quello che vedevo in Gaetano di Monaco, in quella particolare occasione.
In lui coglievo una sorta di profondo raccoglimento che lo indirizzava verso la ricerca della pace, quella pace di cui lui aveva tanto bisogno e che cercava disperatamente.
Non dimentichiamo che noti medici dicono che il raccoglimento attiva la funzione parasimpatica del nostro corpo.
Ecco perché la preghiera è anche una medicina, un balsamo salvifico prima dello spirito e poi anche del corpo.
Anche io, e lo confesso con profonda naturalezza da cristiano quale sono, sento il bisogno, in alcuni momenti della mia giornata, di raccogliermi, di chiedere la protezione al Divino, all’Eterno; di ricorrere alla preghiera esicasta.
E vi è di più!
Pensate che la scienza ha largamente dimostrato che la pratica religiosa può influire sullo stato di salute di una persona, facendo ammalare meno e guarire prima il paziente.
Fra i primi studiosi ad averne parlato, un noto cardiologo americano che ha posto sullo stesso piano preghiera e rilassamento, conseguendo dei risultati strabilianti.
Leggevo, nei mesi scorsi, in occasione di un convegno, di cui sono stato moderatore, e che si è tenuto presso il Salone degli Specchi del Teatro Garibaldi nella mia città che, grazie a una speciale respirazione meditativa i monaci buddisti resistono alle temperature dell’Himalaya.
Mi è rimasto nella mente un esperimento che ho letto e che mi piace descrivere.
A partire dai primi anni novanta un neuro scienziato, di cui non ricordo il nome, ha verificato cosa accade nel cervello di persone appartenenti a fedi diverse.
I suoi studi sono stati ad ampio raggio, partendo dai monaci tibetani per arrivare alle monache francescane e così via.
Il neuro scienziato ha chiesto loro di utilizzare le rispettive meditazioni o le rispettive forme di preghiera appartenenti al loro credo durante l’ esperimento.
In pratica i vari soggetti interessati all’esperimento dovevano tirare una cordicella, non appena provavano la sensazione di cadere in estasi.
In quel momento partiva una risonanza magnetica funzionale del loro cervello cui quella cordicella era collegata.
In buona sostanza durante un’esperienza spirituale, si notava, attraverso la lettura del monitor della risonanza magnetica, che il cervello “spegneva” gli stimoli sensoriali esterni, come luce, rumori e odori e permetteva di concentrarsi sulla propria interiorità.
I risultati non solo sono stati fisici, perché la preghiera attiva la funzione parasimpatica, riduce la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna, rafforza la risposta immunitaria e abbassa i livelli ematici di cortisolo (l’ormone dello stress), favorisce la percezione che le cose abbiano un senso unitario, in un’ottica di trascendenza e di infinito. Ma si è andato oltre.
Oltre, nel senso che i benefici sembrano maggiori in chi prega tutti i giorni, perché i vari meccanismi avvengono in tempi più brevi.
Ecco perché molti studiosi hanno parlato di un cervello modellato dal divino, come se l’attitudine a un uso rituale della preghiera ne accelerasse gli effetti sull’organismo.
Fra gli effetti tangibili della preghiera c’è poi l’aumento dei livelli di serotonina nel sangue, il trasmettitore correlato ai disturbi dell’umore.
Maggiori valori aiutano a gestire meglio la propria emotività, contrastando ansia, depressione, insonnia, impulsività e stress, ma anche ad assicurare una migliore salute in generale.
In definitiva più ci connettiamo con la natura e più il nostro organismo affina la sua capacità di autocura.
Concludendo dobbiamo dire che noi, senza che ce ne rendiamo conto, guariamo ogni giorno da varie patologie.
A un certo punto, mentre noi tutti eravamo lì, fuori quell’aula, sentimmo suonare un campanello (proprio come avviene a scuola).
Era davvero il nostro campanello e udimmo la voce del commesso o usciere della Sezione, mi pare che si chiamasse Antonio, o così tutti lo chiamavano.
Antonio con voce alta e squillante, a un certo punto disse la fatidica frase “Entra la Corte”.
E allora noi tutti ci affrettammo a entrare in aula; per la verità tutti corremmo e noi avvocati ancor di più per indossare la toga e prendere il nostro posto tra i banchi.
Quando tutti furono ai loro posti, il nostro sguardo e la nostra attenzione in automatico si rivolse verso la Presidente della Prima Sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli.
La Presidente era ferma al centro della Corte, poi vi era una giudice togato alla sua destra, e sei giudici popolari alla sinistra.
Tutti erano in piedi, e dietro di loro vi era una grossa scritta dove si leggeva “La Legge è uguale per tutti”; anche noi eravamo in piedi, in trepida attesa e immersi in uno stato ansioso indescrivibile.
A un certo punto la Presidente incominciò a leggere il dispositivo della sentenza e lesse grosso modo così: “In nome del Popolo Italiano, in riforma della sentenza di primo grado, si condanna Busico Salvatore alla pena dell’ergastolo ed a una provvisionale immediatamente esecutiva di duecentomila euro in favore della costituita parte civile ecc…”.
Poi, in verità, non riuscimmo a sentire più nulla. Un’emozione immensa, indescrivibile e, al tempo stesso, una commozione grande, ma davvero grande, mi prese, anzi ci prese.
Mi rimase impresso, e non potrò mai dimenticarlo, l’atteggiamento di Gaetano di Monaco, lo zio di Enrico che, in un baleno, cadde in ginocchio e scoppiò in lacrime.
Un pianto davvero liberatorio s’impadronì di lui; poi egli esclamò a voce alta: “Non ci posso credere, il Signore mi ha ascoltato, Signore mi hai ascoltato. Grazie. Grazie”.
Dopo la lettura del dispositivo, in un’aula che nel frattempo si era riempita di carabinieri, noi uscimmo tutti e subito telefonammo alla mamma di Enrico che non aveva voluto presenziare all’ultima udienza.
Era quello un momento troppo importante della loro vita.
In realtà quella sentenza rappresentava per loro la soluzione a un dramma vissuto e soprattutto la conoscenza della verità sulla morte del povero disgraziato Enrico.
La sig.ra Olimpia, quando la contattammo telefonicamente, non riusciva neppure a parlare per telefono, apprendendo la notizia che le volevamo dare.
Io, per primo, le dissi: “Signora Olimpia, la Corte ha condannato Busico all’ergastolo”.Ricordo precisamente che furono proprio queste le precise parole che, in quell’occasione, le dissi, forse con un filo di voce perché anche io non riuscivo a superare l’emozione.

L’assassinio di Milena Sutter

Ma ora ritorniamo al nostro libro e al titolo che abbiamo voluto dare a questa opera.
Innanzitutto dobbiamo spiegare perché lo abbiamo intitolato “Milena e Enrico: due angeli in Paradiso”.
Il secondo angelo di cui vogliamo parlare è Milena Sutter e tra i due casi abbiamo voluto fare una sorta, diciamo così di confronto comparativo, tra questi due processi, l’uno avvenuto a distanza di cinquanta anni dall’altro.
Due omicidi avvenuti in due parti diverse della nostra Penisola, distanti, geograficamente, l’uno dall’altro di oltre ottocento chilometri.
Ma qual è stata la ragione di questa comparazione?
La ragione è semplice. Il Procuratore Generale Aggiunto di Napoli, il dott. Francesco Iacone, che mai dimenticherò, nella sua requisitoria nel processo a carico di Busico Salvatore, tenuta il 7 luglio 2014, a Napoli, dinanzi ai Giudici Togati e ai Giudici Popolari, che componevano la Corte della Prima Sezione della Corte di Appello di Napoli, tutti estremamente attenti, volle ricordare un omicidio avvenuto dieci lustri prima a Genova: l’assassinio di Milena Sutter, una ragazzina tredicenne, figlia dell’industriale della cera, Arturo.
Omicidio, quello di Milena Sutter, cui il dott. Iacone volle fare esplicito riferimento mettendo in evidenza i tratti comuni di questi due processi indiziari per eccellenza, in cui vi era tutto il compendio per provare la colpevolezza dell’imputato Salvatore Busico, come nel caso della Milena Sutter vi era stato il compendio per provare, nell’altro caso, la colpevolezza di Lorenzo Bozano.
In ambedue i casi però mancava solo un elemento: la confessione dei due imputati.
Ebbene, come anticipavamo prima, l’omicidio di Milena Sutter e quello di Enrico di Monaco sono due processi che si assomigliano perché hanno dei tratti in comune.
E non solo! Pensate come la storia ritorna e come sono veritieri i corsi e i ricorsi storici di cui ha sempre parlato il grande Giambattista Vico.

Lorenzo Bozano
Lorenzo Bozano

Invero era stato proprio il dott. Francesco Iacone, il Sostituto Procuratore Generale, allievo del celebre magistrato dott. Francesco Coco, trucidato dalle Brigate Rosse a Genova nel 1979, nel 1975, da applicato alla Procura Generale presso la Corte di Appello di Genova, essendo all’epoca un giovane magistrato, su espresso incarico del dott. Coco, a essere incaricato di sostenere la Pubblica Accusa dinanzi alla Corte di Assise di Appello di Genova contro Lorenzo Bozano, il biondino dalla spider rossa, anche lui, come Salvatore Busico, assolto in primo grado, nel 1973 e condannato all’ergastolo in secondo grado, nel 1975, condanna confermata in Cassazione.
E allora, in questo libro, abbiamo dedicato uno speciale capitolo sul perché, secondo il nostro modesto modo di pensare, le due vicende processuali si rassomigliano e, soprattutto, sul perché questi due processi sono classicamente indiziari con tantissimi segmenti in comune.
Segmenti che, pur non avendo la stessa forza della prova diretta, perché necessita di un vaglio oltremodo attento e rigoroso, quando ricorrono però le condizioni e i requisiti, sono idonei alla ricostruzione del fatto e a provare la responsabilità dell’imputato.
In verità con l’ausilio del brillante e indimenticabile dott. Francesco Iacone, io, nella mia posizione di patrono della parte civile riuscii a cavalcare il cavallo che lui aveva preparato.
E alla fine avemmo ragione. La Corte ci diede ragione. Salvatore Busico oggi, come Loreno Bozano ieri, venne condannato.
Ma la funzione di un patrono di parte civile in un processo penale è troppo limitata.

Lorenzo Bozano
Lorenzo Bozano

All’avvocato devono essere riconosciute un’autonomia costituzionale e una libertà più piena.

Sono questi temi che oggi sono particolarmente sentiti più di ieri, e se oggi se ne parla ancora di più, vuol dire che le tante nostre lamentele di ieri un frutto in un certo senso lo hanno dato.
A esempio di recente questo tema è stato a lungo dibattuto e il Consiglio Nazionale Forense in un documento intitolato “L’avvocatura e la Costituzione” ha presentato una proposta di legge che punta a ottenere un rafforzamento del ruolo dell’avvocato nella nostra Costituzione e il riconoscimento di una sua piena funzione pubblicistica.
C’è speranza di una novella di una norma costituzionale da apportare all’art. 111.
Ma in realtà cosa vogliamo, noi avvocati?
La risposta è semplice: il nostro obiettivo, in pratica, è quello che venga espressamente prevista l’autonomia della nostra funziona pubblicistica di difensore, nel processo dove siamo chiamati ad assicurare la necessità della difesa tecnica dell’imputato.
Una funzione sicuramente insostituibile anche, e soprattutto, nell’epoca contemporanea connotata dalla priorità dei diritti del cittadino.
La Carta Costituzionale, d’altronde, fa già molti riferimenti al ruolo e alla funzione dell’avvocato riconoscendo che “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” e che “Sono assicurati ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”. Ma ciò, a nostro parere, è insufficiente.
Siamo, perciò, dell’idea che la funzione svolta dall’avvocato debba essere ancora di più e meglio valorizzata.
Ecco perciò giustamente il Consiglio Nazionale Forense, in epoca recente, ha avanzato la proposta di introdurre nella Costituzione una specifica norma pro-avvocatura, novellando ad esempio l’art. 111 e dando cosi al dettato costituzionale una sua completezza che riconosca appieno non solo la complessità del ruolo dell’avvocato, ma anche la sua posizione di libertà e di indipendenza, in linea con la deontologia professionale.
In un quadro del genere il ruolo dell’avvocato è utile e indispensabile da un punto di vista sociale e nel contempo, pensiamo, debba essere maggiormente riconosciuto da un punto di vista costituzionale.
L’avvocato, infatti, insieme al giudice, si dedica all’interpretazione della legge che cambia continuamente e ambedue, applicando il principio di legalità, tentano di dare “certezza al diritto”.
In questo delicato compito l’avvocato non deve perdere mai di vista l’obbligo morale, costituzionalmente sancito, che gli appartiene: tutelare i diritti umani inviolabili.
Speriamo che ciò venga realizzato al più  presto e che l’avvocatura italiana non sia costretta a un’eclatante protesta pubblica, come avvenne dopo l’approvazione del D.L. 223/2006 (il c.d. Decreto Bersani), al punto che allora sfociò in una lunga astensione dalle attività di udienza.
Tutto ciò perché è nota a tutti la consapevolezza della drammatica situazione in cui versa la giustizia italiana.
E questo è il merito del Consiglio Nazionale che ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica la funzione sociale e costituzionale svolta dall’avvocatura italiana.
Eppure sia il Presidente dell’Associazione Italiana dei costituzionalisti (il quale di recente auspicava che il prossimo Parlamento avrebbe dovuto occuparsi della funzione dell’avvocato) sia il Presidente del Consiglio Nazionale Forense sollecitavano la politica a intervenire sul rafforzamento, in Costituzione, del ruolo dell’avvocato.
Ma tutto ciò è ancora un sogno di mezz’estate! Eppure guai ad abbassare la guardia!
In sintesi, se si parte dal principio che rafforzare la posizione dell’avvocato può essere un beneficio anche per la stessa magistratura e che con questo beneficio si arriverà a migliorare l’intero pianeta giustizia, tutti saranno ben consci che, su questa nuova piattaforma, non vi sono controindicazioni nel riconoscimento esplicito del ruolo del difensore.
Si tratta invero di un peso notevole per l’avvocatura, che sicuramente saprà metterlo a frutto.

Raffaele Gaetano Crisileo

PREFAZIONE ENRICO E MILENA: DUE ANGELI IN PARADISO
Enrico di Monaco e Milena Sutter: analisi di due delitti.

Pierbattista Pizzaballa, Arcivescovo
Pierbattista Pizzaballa, Arcivescovo

di Mons. Pierbattista Pizzaballa
 
In uno stile discorsivo, a volte quasi parlato (e forse non potrebbe essere diversamente, vista l’indubbia abilità oratoria che traspare dalla trascrizione di una delle sue arringhe qui riportate), l’avvocato Crisileo, introduce anche i non addetti ai lavori nel mondo del diritto.
Partendo da due processi assai distanti nel tempo e nello spazio, che l’autore mette a confronto dopo averne studiato con accurata perizia i vari elementi ed essere stato, in uno di essi, parte in causa in qualità di “patrono di parte civile”, il Crisileo affronta il tema del “processo indiziario” nel nostro Paese, con l’intento di mostrarne, qualora tutti gli elementi vengano rispettati con rigore logico e lucidità, l’indiscusso valore giuridico.


L’originalità della proposta contenuta in questo libro consiste indubbiamente nella varietà dei temi trattati, alcuni dei quali esulano anche in modo vistoso, per quanto non peregrino, (come si può vedere, per esempio, nelle pagine che riguardano la preghiera) dall’argomento propriamente giuridico. Tale varietà, infatti, contribuisce a offrire al lettore uno spaccato a tutto campo degli argomenti trattati e riesce a non appesantire l’esposizione, grazie all’alternarsi di osservazioni personali e di avvincenti documenti processuali, di spaccati di vita vissuta e di narrazioni di epoche lontane nel tempo.
Ma non è semplicemente la variegata presenza di elementi diversi a costituire il maggior pregio di quest’opera, quanto piuttosto ciò che l’autore, con discrezione e rispetto, ci fa intuire dietro ogni personaggio descritto, dietro ogni vicenda narrata, per quanto drammatica e talora raccapricciante possa essere: intendo dire lo spessore umano che ogni evento racchiude, il mistero e l’esigenza di verità nascosti in esso e che da esso trapelano, invocando la presenza di valori e di significati non effimeri.

Gerusalemme, 10 settembre 2019
 †Pierbattista Pizzaballa,
Arcivescovo

POSTFAZIONE di Raffaele Santoro

Prof. Raffaele Santoro
Prof. Raffaele Santoro

 
L’Avv. Raffaele Gaetano Crisileo all’interno di questo Volume ripercorre, con una dettagliata ricostruzione, i processi inerenti i delitti di Enrico di Monaco e Milena Sutter.
Nella prima parte, dopo aver esposto con dovizia di particolari la strategia dell’avvocato penalista all’interno di un processo indiziario e il tormento dell’anima vissuto dallo stesso, l’Autore analizza l’omicidio di Enrico di Monaco, riportando integralmente la propria arringa dinanzi alla Corte di Assise di Appello di Napoli.

Dalla relativa lettura emerge in tutta la sua evidenza l’azione difensiva dell’Avvocato nel processo e non dal processo, contribuendo attivamente ed efficacemente alla ricerca della verità processuale. Dall’arringa tenuta dall’avv. Crisileo in questo delicato processo emerge altresì l’importanza dell’oratoria forense, quale arte di parlare ed esporre oralmente nel processo in modo chiaro, coeso, deciso e coordinato una determinata linea difensiva, rappresentando all’organo giudicante i contenuti con ordine, efficacia, compostezza, eleganza, sicurezza e stile, il tutto accompagnato anche da una corretta gestualità.
La seconda parte del Volume, dedicata all’omicidio di Milena Sutter, si conclude con una profonda riflessione sulla giustizia riparativa e sulla necessità di delineare un sistema sanzionatorio contraddistinto da una pena più umanizzante. A tale riguardo, l’Autore, con sguardo lungimirante, evidenzia che «amministrare la giustizia non vuol dire solo “mettere le mani” sul colpevole e pronunciare nei suoi confronti una sentenza di condotta, ma significa innanzitutto mettere al primo posto, il rispetto, “la dignità”, i “diritti della persona umana”, sia vittima che reo; questo senza discriminazione alcuna».
La piena tutela dei diritti fondamentali nel processo e dopo il processo in caso di condanna impone dunque necessariamente di superare anche in questo delicato ambito ad alto impatto sociale quella che Papa Francesco definisce come la «cultura dello scarto», nella consapevolezza che anche «le carceri hanno bisogno di essere sempre più umanizzate».
In questa prospettiva, come ben evidenziato dall’Autore, appare sempre più urgente promuovere una evoluzione in chiave costituzionale dell’intero sistema penitenziario, al fine di approdare anche ad una «giustizia “ripartiva” che insegna al colpevole ad essere responsabile ed a dialogare con chi ha subito il torto e con la comunità», al fine di approdare ad una piena ed effettiva attuazione del modello sanzionatorio tracciato dai Padri Costituenti nella Carta Costituzionale.
 
Raffaele Santoro
Professore Associato
Dipartimento di Giurisprudenza
Università della Campania “Luigi Vanvitelli”

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