Hikikomori, allarme in Campania: in aumento i casi di isolamento sociale tra i giovanissimi

Tre i gruppi d'ascolto in Campania, a Napoli oltre 60 famiglie hanno chiesto aiuto, altre 30 tra Caserta e Salerno. La testimonanza di Caterina: suo figlio si è chiuso in camera a 12 anni, ora ne ha 21

In Campania si nasconde una realtà che va al di là delle semplici parole. ‘Hikikomori’: forse non è così familiare come termine, è un fenomeno che può sembrare estraneo, ma in realtà si staglia come un’ombra nella vita di molti giovani e delle loro famiglie. Questo termine nasce in Giappone tra gli anni ‘80 e ‘90 e tradotto significa “stare in disparte” o “ritirarsi”. Descrive una condizione in cui gli individui scelgono di ritirarsi completamente dalla vita sociale, isolandosi all’interno delle proprie abitazioni, spesso limitandosi soltanto alle proprie camere da letto, per periodi molto prolungati.

Sebbene il termine abbia radici culturali giapponesi, la sua applicabilità si è estesa in modo universale, compresa la nostra regione. Sebbene possa manifestarsi in modi diversi, alcuni sintomi comuni includono un ritiro sociale estremo, l’evitamento delle attività quotidiane e una marcata difficoltà nell’instaurare relazioni interpersonali. Spesso, chi sperimenta l’hikikomori può isolarsi completamente nella propria stanza, disconnettendosi da amici e familiari. Il disagio sociale può essere accompagnato da una perdita d’interesse per le attività quotidiane, come la scuola o il lavoro, e una preferenza per la vita virtuale rispetto alle interazioni del mondo reale.

Sebbene l’hikikomori sia spesso sottovalutato, è incoraggiante vedere la nascita di gruppi d’ascolto che stanno emergendo come fari di sostegno per le famiglie colpite da questo fenomeno: l’associazione ‘Hikikomori Italia’ si è distinta come una risorsa cruciale. Fondata dallo psicologo Marco Crepaldi e guidata dalla presidente Elena Carolei, una madre coraggiosa che ha affrontato direttamente questo problema, l’associazione ha l’obiettivo di offrire supporto e comprensione a coloro che si trovano a fronteggiare l’hikikomori. Inoltre, l’associazione cerca di svolgere attività di sensibilizzazione del fenomeno in giro per l’Italia.

Caterina è la coordinatrice dei genitori della Campania e ha vissuto questa esperienza in prima persona, con suo figlio. Ne parliamo con lei per saperne di più.

Cosa possono fare i genitori se sospettano che il loro figlio o la loro figlia stia vivendo l’hikikomori?

Innanzitutto, si spera che i genitori siano abbastanza informati. Il primo passo favorevole è sicuramente quello di abbassare tutte le aspettative, creando attorno al figlio o alla figlia un ambiente di grande attenzione e di comprensione. Non bisogna dire frasi sbagliate come “Cosa ne sarà un domani se tu non studi?” oppure “Chi penserà a te quando io non ci sarò più?”. Sicuramente sono pensieri comuni, sono preoccupazioni che i genitori hanno verso i figli, ma quando questi ultimi sono molto fragili e sensibili potrebbero non riuscire a stare in società per via delle forti pressioni. Non si fa altro che peggiorare la situazione, si dà loro un carico ancora maggiore di quello che hanno perché non si sentono apprezzati nella società. È difficile che il ragazzo o la ragazza accetti la psicoterapia, perché nelle quattro mura domestiche sta bene. Se riesce ad accettare la psicoterapia è un grandissimo passo avanti. I gruppi d’aiuto dell’associazione tantissimo. Anche a me hanno dato una mano notevole, lì ho imparato a gestire la mia modalità di approccio nei confronti di mio figlio, ho cambiato totalmente atteggiamento nei suoi confronti. In associazione adoperiamo le “buone prassi”, sono dei consigli e delle linee guida che ci rassicurano e ci fanno capire meglio il disagio che sta vivendo nostro figlio o nostra figlia, quindi il primo passo è accettare il disagio che lui o lei sta vivendo. Soffrono tantissimo e hanno difficoltà ad interagire col mondo che li circonda, anche con la loro famiglia. Quando si chiudono è un problema e bisogna avvicinarsi piano piano cambiando approccio e con tantissima pazienza.

In Campania quante famiglie usufruiscono dei gruppi d’aiuto che offrite?

Abbiamo tre gruppi di auto-mutuo aiuto, uno a Caserta, uno a Salerno e uno a Napoli. Ci incontriamo una volta al mese con dei genitori per confrontarci. Raccontiamo le nostre esperienze senza nessun tipo di giudizio, cosa che temono sia i genitori che i loro figli. Questa è un’altra cosa da azzerare. Il gruppo di Napoli conta più o meno una sessantina di famiglie. A Caserta sono 15 famiglie, è un gruppo appena nato. Anche a Salerno sono più o meno 15 famiglie.

So che esiste una convenzione tra il vostro organismo e l’Asl di Caserta.

Sì, l’azienda sanitaria casertana si è messa a nostra disposizione, visto che il ritiro sociale non è riconosciuto. Purtroppo, il ragazzo ritirato viene identificato solo come colpito da ansia sociale o ansia scolastica, che più o meno si somigliano. Ci diamo un aiuto reciprocamente. Se loro notano delle situazioni che sono riconducibili a un ritiro sociale veniamo interpellati e grazie al loro sostegno queste persone vengono inserite nei nostri gruppi e si comincia un percorso insieme, tutto gratuitamente. Se noi, invece, abbiamo bisogno di un consulto psichiatrico o neuropsichiatrico c’è la loro disponibilità. Noi abbiamo difficoltà enormi a farci riconoscere, alcuni professionisti dicono “staccate internet ai vostri ragazzi” o “buttateli fuori”. Internet, per un ragazzo che non ha amici, è una finestra sul mondo. Il problema non è giocare ai videogiochi, ma se poi diventa un attaccamento è una conseguenza. Chi è un giocatore accanito e poi tranquillamente esce e si incontra con altre persone non è un ragazzo ritirato. L’hikikomori si ritira e tramite il computer e i giochi socializza. Adesso sto cercando di contattare le scuole, e spero che tramite i fondi si possano organizzare attività di sensibilizzazione. Appena avrò qualcosa di concreto sicuramente lo proporrò”.

Ci sono storie di guarigione a livello locale?

Nel nostro gruppo ci sono ragazzi che stanno sicuramente meglio. Conservano le loro fragilità, ma perché sono ragazzi molto sensibili. Alcuni si sono dedicati ad aiutare gli altri, perché hanno capito che con un piccolo aiuto può succedere il miracolo. Mio figlio ha cominciato a rinchiudersi a 12 anni, ora ne ha 21 e sta molto meglio. Ha terminato gli studi, ha preso la patente, ha la fidanzata. Certo, certe volte ha l’ansia di andare in un posto e io lo capisco. Da adesso a quando era rinchiuso nella sua camera non c’è paragone. Nel momento in cui si sentono accolti cominciano ad esprimere le loro emozioni, ed esprimendo i loro dolori si capisce bene dove bisogna andare a lavorare. Anche una parola detta attraverso la porta o un messaggio su Whatsapp che faccia trapelare il bene che gli si vuole possono aiutare, tante piccole cose possono far loro capire che si possono aprire. Noi dobbiamo essere attenti a cogliere queste piccolissime aperture e lavorarci. Dobbiamo imparare noi genitori a metterci in prima linea nell’aiutare i nostri figli. Ecco perché i gruppi aiutano.

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