I limiti del Superbonus 110: troppi passaggi e poca liquidità

Sei modifiche in sei mesi, la misura di Draghi è un boomerang. Gli architetti Clemente e Petecchia: doveva essere il volano dell’economia post Covid ma il caos normativo rischia di limitare l’applicabilità della norma.

Gli architetti Chiara Clemente e Alessio Petecchia
Gli architetti Chiara Clemente e Alessio Petecchia

E’ di qualche giorno fa il plauso dell’Europa alla misura del Superbonus 110. Nato con l’obiettivo di riqualificare il patrimonio immobiliare nazionale attraverso specifici interventi di efficientamento energetico e consolidamento statico, come tutte le cose ha i suoi limiti nella concreta applicazione. Il peso della farraginosità del processo decisionale pubblico ostacola o impedisce, in forme patologiche, l’attuarsi di ordinati procedimenti di spesa anche quando vi sono le risorse disponibili ed una volontà politica chiara.

Un calvario quotidiano cui si sottopongono milioni di cittadini costretti da un apparato ottuso a sprecare porzioni importanti del proprio tempo, vagando da un ufficio ad uno sportello alla ricerca di un timbro, di una firma o, semplicemente, di un’informazione. Uno spreco che costa, oltretutto. Ce lo confermano gli architetti Chiara Clemente e Alessio Petecchia, quest’ultimo fondatore dello Studio Tix di Roma.

Dottor Petecchia, a lei il compito di farci una breve panoramica.

Stando ai dati resi noti da Enea, possiamo osservare che al 30 aprile in Italia, tra i cantieri in essere e quelli conclusi, sono interessati quasi 82 mila edifici unifamiliari, più di 43 mila unità immobiliari funzionalmente indipendenti e 24.263 condomini. Salta all’occhio come il numero di questi ultimi rappresenti un valore basso, che si riconferma tale esaminando gli investimenti economici: 13.426.808.088,57 di euro per i condomini contro 14.018.042.200,81 di euro per case unifamiliari e unità immobiliari funzionalmente indipendenti.

Per una norma pensata per ridurre i consumi e riqualificare il patrimonio edilizio, in un paese in cui il 60% degli abitanti risiede in condomini, stona rilevare come l’incentivo abbia, per una grossa fetta, riqualificato le “case al mare”. Eloquente in tal senso è stato il dissenso nei confronti della proroga del 30% per le unifamiliari dal 30 giugno al 30 settembre 2022, periodo in cui le case di vacanza sono tipicamente abitate.

Se, come si evince, la misura del Superbonus 110 è stata facilmente utilizzabile per abitazioni secondarie, i cui consumi sono peraltro anche minori, perché non sta funzionando per i condomini dove i consumi sono maggiori e, verrebbe da dire, dove la norma voleva maggiormente intervenire?

Se in un primo momento gli operatori di mercato hanno rivolto le proprie attenzioni agli edifici unifamiliari, dove il guadagno sembrava più semplice e quindi l’operazione più vantaggiosa se svolta in serie, complici la prossimità della scadenza della misura 110% e una crescente familiarità con la norma, si è consolidato un naturale cambio di rotta secondo cui i condomini rappresentano in realtà la condizione più remunerativa al minor sforzo.

Tuttavia, i dati raccontano un perdurare di una bassa percentuale di asseverazioni per gli stessi. Sicuramente il contesto è più complesso e il percorso decisionale all’interno di un condominio è più tortuoso, ma non va dimenticato che il legislatore era già intervenuto ex ante modificando a ribasso la quota millesimale sufficiente e necessaria a sbloccare le attività finalizzate ai lavori attraverso il Superbonus.

In termini generali, quello che resta frenante è un quadro di norme e condizioni al contorno in continua evoluzione e contraddizione. Basti pensare che tra i requisiti di accesso al Superbonus esisteva la conformità urbanistica dell’intero corpo di fabbrica, la quale per essere dimostrata richiedeva accessi agli atti che in molti Comuni, in barba a quanto stabilito dalla Legge 241/90, prevedono in tempi normali mesi e mesi per essere espletati. Figuriamoci in tempi in cui gli uffici tecnici comunali sono rimasti chiusi al pubblico fino al termine dell’emergenza sanitaria, lo scorso 31 marzo.

Il legislatore è intervenuto poi con un correttivo che ha superato tale requisito con una norma che dice, citiamo testualmente “Fermo restando quanto previsto al comma 13-ter, resta impregiudicata ogni valutazione circa la legittimità dell’immobile oggetto di intervento”. Appare evidente come tale correttivo non intervenga né in maniera univoca né in maniera potenzialmente correttiva, ma ha tuttavia veicolato una comunicazione che ha alimentato la poca chiarezza.

Per analogia, questo approccio è stato mantenuto su tutta una serie di aspetti, cessione del credito, limiti di spesa, requisiti delle imprese – Soa – regimi di applicazione di norme quali in caso di demolizione e ricostruzione, ecc., sui quali la norma, ab origine, non ha avuto la lungimiranza di prevedere le ovvie conseguenze che si sarebbero verificate e sulle quali si è stati costretti ad intervenire attraverso decreti legge, pareri dell’Agenzia delle Entrate e tutta una serie di strumenti a carattere normativo più o meno incisivo, che hanno reso il percorso un calvario dal D.L. 34/2020 ad oggi.

Dottoressa Clemente, tra gli aspetti a cui avete accennato è di grande risonanza in epoca attuale quello relativo alla cessione del credito. Quali sono i problemi ad esso correlati?

Con l’ultima modifica introdotta in materia cessione crediti, che risale al Decreto Aiuti n.50/2022 dello scorso 17 maggio, siamo arrivati alla sesta modifica in circa 6 mesi. Decisivo in quest’ultima fase è stato il pressing di professionisti, associazioni di categoria e imprese edili, che in molti casi hanno dovuto sospendere cantieri in essere e rimandare la partenza di lavori già contrattualizzati per mancanza di fondi, dovuta al blocco della restituzione dei crediti maturati nei confronti dello Stato.

Di conseguenza, risulta inoltre attualmente difficile trovare degli intermediari che acquisiscano ulteriore credito. Pertanto, in questa fase, la maggior parte delle imprese si trova piena in pancia di crediti e priva della liquidità necessaria a fronteggiare le spese richieste da un meccanismo in cui gli imprenditori edili sono obbligati ad anticipare il costo degli acquisti di materiali, il cui prezzo è peraltro in costante aumento.

In effetti possiamo constatare che al momento questo aspetto rappresenta il blocco più critico di tutto il settore. Va sottolineato come questi continui rallentamenti determinano per tutto il settore, imprese, professionisti, l’impossibilità di gestire una progettualità. La crescita è infatti correlata ad una programmazione di investimenti crescenti, basati su un fatturato presunto. La variabile introdotta dalle continue interruzioni rende di fatto impossibile avanzare previsioni in questo senso e con queste una progettualità.

Tale complessità normativa si contestualizza in un dibattito politico in cui il presidente Draghi si è fortemente esposto, dichiarando la sua contrarietà alla manovra. Considerati i benefici di risanamento del patrimonio edilizio e di contenimento dei consumi energetici sui quali si fonda la misura del Superbonus 110%, quali sono le ragioni, secondo voi, che risiedono nella sua dichiarazione?

Clemente Appare evidente come dietro questo caos normativo ci sia una precisa volontà politica che ha l’obiettivo di limitare e rallentare l’applicabilità della norma. Nonostante la bontà della ratio della norma stessa, anche come velivolo della ripresa economica post-pandemia, sussistono dei fattori cardine che rappresentano dei principi a carattere fortemente critico. Il combinato disposto tra un’aliquota di incentivo pari al 110% e il meccanismo dello sconto in fattura ha tolto, come sostiene Draghi, all’interno dei contratti d’appalto, uno dei valori essenziali del controllo esercitato dal committente nei confronti dell’impresa appaltatrice.

Petecchia In effetti, la possibilità di avere una spesa effettivamente pari a zero ha disincentivato il committente ad eseguire un controllo delle lavorazioni previste da capitolato e dei relativi prezzi applicati. All’interno di questa promiscuità si contestualizza anche il ruolo del tecnico, che in un meccanismo da “general contactor”, rientra tra gli appaltatori per i quali il costo è assorbito dal contraente generale e dunque, la sua terzietà nel rapporto committente-imprese, anch’esso principio fondamentale all’interno di qualsiasi appalto, viene a mancare, con una forte propensione, anzi, verso l’appaltatore.

Per quanto riguarda il ruolo dei tecnici, dottoressa Clemente, questo meccanismo di dipendenza dal general contractor come collima con le responsabilità formali a cui siete esposti in qualità di professionisti?

È vero che la norma, sin dal principio, ha previsto sanzioni, nel tempo riviste anche in maniera crescente a garanzia della bontà del lavoro svolto dai tecnici. Tuttavia va anche precisato che tali sanzioni riguardano in maniera più diretta colui che riveste il ruolo del cosiddetto tecnico asseveratore. Un appalto di grandi dimensioni prevede la presenza di più tecnici contemporaneamente, tra i quali peraltro è di cruciale importanza anche quello del coordinatore della sicurezza. Per espressa norma di legge, ai sensi della Legge n. 81 del 2008, il coordinatore per la sicurezza deve essere nominato dal committente.

In questa promiscuità cui facevamo riferimento poc’anzi, appare sconveniente che la persona responsabile del controllo della sicurezza dei lavoratori presenti in cantiere e delle misure di sicurezza poste in essere dal loro datore di lavoro, sia pagato dallo stesso datore di lavoro. All’interno di una previsione di incremento cospicuo di cantieri in tutto il territorio italiano, ci si sarebbe aspettati un intervento normativo deciso anche a tutela dei lavoratori. Peraltro, in epoca attuale, non solo i materiali sono oggetto di scarsità all’interno del mercato ma, evidentemente, anche la forza lavoro. La sicurezza diventa quindi un tema ancora più centrale laddove per ovviare alla mancanza di personale si arruola manodopera meno o poco qualificata.

Auspicando che possa esserci un’evoluzione anche sull’aspetto della sicurezza e superato il tema della cessione del credito, crede che questa norma, dottor Petecchia, possa configurarsi come reale contributo alla ripresa economica, alla riqualificazione del patrimonio immobiliare nazionale, non di rado in stato di degrado e abbandono, e alla sostenibilità ambientale?

Sicuramente l’ultimo intervento sulla cessione del credito ha segnato una svolta a favore delle imprese e delle famiglie dei lavoratori coinvolti che, in mancanza di liquidità, andavano verso una grave difficoltà economica. È allarmante in ogni caso come in un settore che dovrebbe trovarsi in un momento di traino per la ripresa economica si trovino in forte crisi i principali attuatori della misura.

Crescita e inflazione sono sempre due concetti che viaggiano di pari passo, ma la cattiva gestione di questo fenomeno potrebbe generare una vera e propria bolla. Vediamo oggi le città riempirsi in modo sempre crescente di ponteggi e di cantieri e questo è un dato incoraggiante per gli obiettivi che Lei descrive. Tuttavia, non bisogna perdere di vista il costo al quale si arriverà a questi obiettivi: sicuramente un prezzo più caro di quello che avrebbe deciso il mercato per sua natura.

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