Nei musei i detenuti al posto delle guide

Nelle stesse ore in cui esplodeva il caso dei “furbetti” del Reddito di Cittadinanza (che poi mi chiedo, furbetti de’ che?), ossia quelli che percepivano irregolarmente i fondi della misura di sostegno che faceva urlare al ministro Di Maio da un balcone di Palazzo Chigi “Abbiamo abolito la povertà” (frase che lo stesso Di Maio nella sua autobiografia di recente pubblicazione dichiara essersi pentito di aver pronunciato), a colpirmi è stata un’altra notizia, certo meno rumorosa. Un accordo che coinvolge altri due ministri: il titolare dei Beni e delle Attività culturali Dario Franceschini e quello della Giustizia Marta Cartabia. I due responsabili dei dicasteri hanno firmato un accordo che prevede la possibilità per i detenuti di estinguere la loro pena (o comunque trascorrerla) lavorando in alcuni dei luoghi più belli d’Italia: i musei. Archivi e biblioteche, per lo più, ma i più fortunati tra i detenuti potrebbero scontare il loro debito con la società in luoghi come la Reggia di Caserta, il Palazzo Ducale di Mantova o la Pinacoteca di Bologna (fonte: Velvet). Circa un centinaio di persone saranno coinvolte in questa “sperimentazione”, fanno sapere da Roma, che è definita dalla stessa Cartabia “una convenzione di grande valore pratico, ma anche simbolico”.
Quello che non si è detto è che una soluzione del genere, applicata su larga scala, sarebbe ottima anche per aggirare determinate carenze di un settore, quello del lavoro nei Beni culturali, che è emblematico del sistema Italia. C’è un report, straordinario, elaborato e portato nel 2019 alla Camera dei Deputati dal collettivo “Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” in cui la fotografia del lavoratore dei beni culturali in Italia è la seguente: più di 1 su 2 con laurea specialistica (percentuale che sale sopra l’80 percento se si includono laureati triennali e dottorati), 1 su 3 lavora in un museo, 1 su 4 dichiara di aver lavorato senza contratto e di questi 1 su 3 con Partita Iva e ancora di questi più di 3 su 4 dichiarano di essere stati obbligati ad aprirla. E ancora, le ore lavorate in più della metà dei casi non corrispondono a quelle retribuite, il 25 percento dei pagamenti non era regolare ma soprattutto nel 45 percento dei casi (quindi quasi un lavoratore della cultura su due) si percepiscono meno di 8 euro all’ora.
Volendo quindi sintetizzare questi numeri, possiamo tranquillamente dire che 4 lavoratori su 5 nel comparto Beni Culturali hanno completato un ciclo di studi universitario e professionalizzante per percepire nella maggior parte dei casi meno di 8 euro l’ora, per una media di reddito annuo che nell’80 percento dei casi è inferiore a 15mila euro annui, e nel 40 percento dei casi circa addirittura inferiore a 5000 euro.
Allora permettetemi di essere qualunquista, e anche forse presuntuosamente populista: se i detenuti lavorano nei musei (presumibilmente senza competenza alcuna) e c’è gente che ha aggirato lo Stato per un totale collettivo di circa 40 milioni di euro, forse quelli che sbagliano sono quelli che studiano e provano a lavorare. O che hanno la colpa di non essere emigrati: sempre nel 2019, a Palazzo Chigi sbarcava un altro rapporto (Fondazione Leone Moressa) che parlava dei giovani in fuga. Quel rapporto recitava che l’Italia aveva perso 250mila giovani partiti per altri lidi con altri stipendi e altre prospettive, pronti a versare le loro tasse per far funzionare altri welfare, altri sistemi sanitari o pagare altre pensioni.

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