Riformista o riformato?

Ebbene si. Finalmente Matteo Renzi ha trovato un lavoro, precario quanto si vuole, ma sicuramente prestigioso: direttore di una testata giornalistica (ripresa dopo una precedente esperienza fallimentare) chiamata “Il Riformista”. Il nome del foglio è evocativo di un dato distintivo della vita politica dell’ex Rottamatore che, a suo tempo, prefigurava di portare il Partito democratico verso le sponde più liberali  e “riformiste”, appunto, emendandolo della vecchia classe dirigente di matrice cattocomunista. Insomma l’ex sindaco di Firenze, agli albori della sua discesa in campo, fece proprio del  “riformismo” la propria bandiera, andando a rassodare il campo progressista per trasformare la vecchia matrice socialista   e statalista  del PD, quantunque questa fosse storicamente consustanziale agli ex comunisti ed ai democristiani di sinistra che componevano (con i Verdi ed i socialisti) il  partito che Walter Veltroni aveva battezzato, al Lingotto di Torino, nel lontano 2007, come forza politica a vocazione maggioritaria. Insomma, l’intento era quello di sotterrare la vecchia federazione di partiti che fu l’Ulivo di Prodi, D’Alema, Bersani, Bindi e Rutelli in un partito che guardasse alla modernità, sensibile ai cambiamenti economici che promanavano dalla società che virava verso il tecnologico ed il digitale. Insomma: una palingenesi vera capace di rigenerare uomini ed idee, figli di un vecchio ed ormai anacronistico convincimento politico. L’enfant prodige di Rignano aveva  anche licenziato Enrico Letta da Palazzo Chigi, dopo averlo rassicurato, con scaltrezza, con il celebre “Enrico, stai sereno”. Il tutto, come se non bastasse, nel pieno della crisi di Forza Italia e della transumanza, verso il centrosinistra, di un manipolo di parlamentari azzurri guidati da Angelino Alfano che avevano corroborato la maggioranza parlamentare di Letta, presidente del Consiglio in carica. Divenuto anche premier, oltre che segretario del Pd, il buon Matteo diede vita ad un governo fotocopia di quello precedente, apprestandosi a proporre una serie di leggi di segno politico ondivago, che andavano dalla conferma delle pratiche socialiste e stataliste fino ad altre di stampo liberal democratico. Tra queste ricordiamo la riforma della scuola in senso meritocratico e quella assistenziale (di vecchio stampo) del reddito di inclusione. E poi: spazio alla riforma della Costituzione (“cancellazione” del Senato) che si riprometteva di cambiare le regole del gioco nelle istituzioni in senso fluido e diretto,  fino alla legge elettorale semi proporzionale che invece riportava a galla la frammentazione partitocratica di un tempo.  Insomma molte erano le contraddizioni di linea politica di Renzi che  provò a barcamenarsi con la furbizia tipica di chi predica il sublime e pratica il mediocre. Commise tuttavia l’errore madornale, per gratificare l’indole spavalda di chi crede d’essere il “primo della classe”, di legare gli esiti del referendum costituzionale con la propria permanenza al timone del Governo. Un messaggio improvvido che fece da collante per tutti i suoi nemici dell’epoca, finendo per trasformare quella consultazione in un vero e proprio voto a favore o contro il suo governo. Risultato: perse, sia pure onorevolmente, racimolando comunque oltre il quaranta percento dei consensi in favore, e si dimise dalla carica. Tuttavia, nei mesi a venire, mostrò una evidente  miopia politica, un’azione dal fiato corto e povera di prospettive, restio a quel radicale cambiamento che pure ne avrebbe potuto rilanciare scopo e ruolo per se stesso. Rifiutò, infatti, di mettersi a capo del partito dei…Riformisti (!!), ossia di coloro che lo avevano seguito nella vicenda referendaria,  consci che l’eterna e mai compiuta transizione della politica e della istituzioni parlamentari verso la modernità, avesse bisogno della principale tra tutte le riforme: quella della Magna Carta. Insomma non seppe cogliere il segno dei tempi preferendo l’uovo oggi alla gallina domani. Scelse  il piccolo cabotaggio parlamentare per poter sopravvivere, rinunciando  ad un avvenire più fulgido che riunisse sotto la stesa egida di un partito di stampo riformatore quella massa di  elettori che, trasversalmente, avevano votato “si” al quesito referendario. Naturalmente senza più potere fu contestato e poi sostituito alla segreteria del Pd, chiuse un “accordicchio” con la nuova dirigenza dei Democratici che gli garantì comunque un manipolo di seggi in Parlamento per i suoi vecchi ed intimi amici di cordata. Fondò poi, con quello stesso esercito di reduci, “Italia Viva” ma non ebbe fortuna elettorale, anzi soffrì spesso un’immeritata idiosincrasia da parte dell’elettorato, preso di mira da quanti lo ritenevano causa di tutti i guasti e di tutte le malefatte del Belpaese. E siamo all’ultimo atto: la nascita della federazione con “Azione” di Carlo Calenda ed il discreto successo ottenuto dal ribattezzato “Terzo Polo” alle ultime politiche. Un’unione di breve durata, un fallimento,  che Calenda ha attribuito alla doppiezza di Renzi, al non aver voluto sciogliere il suo partito per dar vita ad una nuova comune aggregazione. Per quanto sommaria la narrazione dei fatti è comunque saliente e ci mette innanzi ad un “furbetto” del partitino, che oggi si trasforma in direttore di giornale e predica dialogo ecumenico e confronto con tutti. Difficile da credere, anche se la domanda sorge spontanea : nel prossimo futuro Renzi si affermerà come Riformista genuino,  oppure sarà nuovamente riformato? Credo lo sapremo presto…

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