Fratellastri d’Italia

Vincenzo D'Anna, già parlamentare

Lo confesso: ho creduto a quello che mi è stato insegnato a scuola; a quello che, sull’Unità d’Italia, era scritto sui libri di storia. Ero orgoglioso dei Garibaldini che, pochi e male armati, avevano sconfitto il ben più numeroso e bieco esercito del Regno delle Due Sicilie. Lo avevano fatto, ci veniva raccontato, per emancipare le popolazioni del Sud in preda alla povertà e all’analfabetismo, alla sudditanza arcaica di un re inetto e bigotto come Francesco II di Borbone, detto spregiativamente “Franceschiello”. Un marchio, il suo, che fu poi accollato, successivamente, anche agli stessi fanti napoletani a significare, come una tautologia, un modello di disordine e di anarchia, di codardia e di arrendevolezza. Un esercito, insomma, inetto, che non sapeva battersi. Appunto: “L’esercito di Franceschiello”. Certo credevo fieramente, con l’animo candido che è tipico dei ragazzi, di essere italiano e che quelle “camicie rosse” e gli stessi soldati sabaudi avessero oltrepassato il Garigliano perché animati dal buono e sacro proposito di redimere il sottosviluppo, l’indigenza e la devianza sociale che regnavano nel nostro meridione, per dare finalmente una veste organizzativa e civile anche alle società di quelle desolate regioni. Piemontesi erano infatti i soldati che il 24 giugno 1859 avevano sconfitto gli austriaci a Solferino e San Martino, in Lombardia, con l’aiuto, però, determinante dei francesi di Napoleone III. Eroi che avevano servito dei regnanti illuminati con le loro monarchie costituzionali (fin dallo statuto Albertino). Non erano forse quelle truppe il “braccio armato” degli ideali propugnati dalla Giovane Italia di Mazzini, dal solidarismo cattolico e solidale di Antonio Rosmini e della lotta alle “cinque piaghe” della Chiesa Cattolica (sorda alle esigenze sociali), delle teorie liberali di Vincenzo Gioberti e della vagheggiata centralità della pubblica opinione e della borghesia nella società italiana? E i bersaglieri di Cadorna che espugnarono Porta Pia dando Roma come capitale all’Italia unita, dopo averla strappata al feudalesimo degli Stati Pontifici e all’ultimo Papa Re Pio IX? Insomma: avevo creduto in tutto ciò che i giovani, nel dopoguerra, avevano studiato e appreso da una storiografia e da una cultura orientata a mistificare il vero volto di una conquista militare e spietata fatta, peraltro, per conto terzi, a vantaggio di una potenza straniera come l’Inghilterra che voleva sbarazzarsi della potente e moderna flotta napoletana, commerciare i vini e il marsala siciliani in piena libertà, assicurarsi il dominio navale nel Mediterraneo. Avevano quegli storici mentito e taciuto nefandezze di ogni genere compiute dai piemontesi sulle popolazioni inermi quando queste resistevano alle occupazioni territoriali (gli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni gridano ancora vendetta). Chi difendeva la propria identità diventava automaticamente un “brigante” e per estirpare questa piaga sociale, agli occupanti veniva concesso il diritto di stupro e di saccheggio, di incendiare paesi e borgate, di mettere al muro intere comunità e di fucilarle, di deportare al nord, in veri e propri campi di concentramento ante litteram, migliaia di meridionali senza uno straccio di processo, rinchiudendoli, sine die, nel carcere fortezza di Fenestrelle in Val Chisone. A costoro fu concesso di distruggere e smantellare Civitella del Tronto, l’ultima fortezza borbonica a essersi arresa dopo sei mesi di straordinaria e tenace resistenza, dopo che era caduta Gaeta. Nessuna misericordia né umanità dei vincitori in tutti i casi. Per anni ho creduto ai racconti di storici codini e prezzolati, già intruppati e organici ai partiti politici che nel dopo guerra detenevano il potere, succubi alla cultura marxista, egemone e mendace per tradizione. Ho creduto candidamente che i soldati di Vittorio Emanuele II, invadendo il Sud, avessero portato la lotta al latifondo e allo sfruttamento, l’istituzione dei Comuni e la democrazia popolare; un segno di modernità, insomma, rispetto al pigro regime monarchico assoluto dei Borbone e della filosofia dei “todos caballeros” da una parte e dei lazzari dall’altra. Credevo che i Savoia fossero venuti realmente a “liberarci”, a emancipare i poveri pescatori di cui parlava Verga nei Malavoglia, a riscattare i “cafoni” abruzzesi protagonisti del romanzo di Ignazio Silone “Fontamara”, dove costoro sono soggiogati dall’ignoranza e dai mezzadri del Principe del Fucino, che imponeva finanche la tassa sulla luce prodotta dal chiaro di luna. In verità non fummo mai informati né eruditi sullo spoglio sistematico subìto dalle nostre floride industrie, dei cantieri navali smantellati e trasferiti di peso al Nord lasciando solo miseria e clientele al Sud, unitamente alle migliaia di braccia ritrovatesi, di punto in bianco, inoperose e per questo costrette ad emigrare (strano che fino al 1861 il fenomeno dell’emigrazione fosse pressoché inesistente nel Meridione d’Italia, salvo trasformarsi in qualcosa di endemico subito dopo l’unità). Vera e propria carne da macello, per dirla con altre parole, che avrebbe costruito, tra razzismo e maldicenza, le fortune dell’industria che cominciava a prosperare al Settentrione. L’ultimo sacco? Fu quello di prosciugare i forzieri del Regno delle due Sicilie, dove erano custodite riserve auree per milioni e milioni di euro attuali, per rimpolpare le esangui casse di Torino prosciugate dalle guerre. Insomma abbiamo vissuto credendo nella storia dei vincitori, scoprendoci, un giorno, “fratellastri d’Italia”.
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