Pietro Anastasi, l’uomo che regalò l’Europeo alla Nazionale

L'unico trofeo continentale vinto dalla nostra Nazionale di calcio porta la firma di un ventenne. Un ragazzino che, fino ad allora, non aveva mai giocato

Foto LaPresse Torino / Archivio sStorico anni '70
Di Attilio Celeghini

MILANO (LaPresse) – Avere vent’anni, esordire in Nazionale e salire da protagonista sul tetto d’Europa. Una favola che Pietro Anastasi ha vissuto in quel 1968 che regalò all’Italia l’unico titolo continentale della sua storia. Nell’anno delle contestazioni e delle rivoluzioni, gli azzurri risorsero dall’incubo coreano del 1966 trionfando nell’Europeo casalingo. E facendo riscoprire agli italiani l’orgoglio della bandiera nei difficili anni del dopo-boom. Nella rosa di Ferruccio Valcareggi nomi come Albertosi, Riva, Rivera, De Sisti, Facchetti. Era il 10 giugno e l’avversario era per la seconda volta la Jugoslavia. ‘Rombo di Tuono’ e il giovanissimo Anastasi, cresciuto con la foto di John Charles nel portafoglio, firmarono il 2-0 davanti ai 70mila dell’Olimpico nel replay del match andato in scena due giorni prima e chiuso a reti inviolate.

Cinquant’anni sono passati da quei giorni di gloria in bianco e nero e scanditi dalla radiocronaca di Niccolò Carosio. Ma ‘Pietruzzo’ da Catania, allora promettente centravanti del Varese in procinto di passare alla Juventus, se li ricorda bene.

Di quella Nazionale lei era una delle novità

Arrivavo dall’Under 21 e dall’Italia B. Valcareggi mi chiamò in nazionale maggiore dopo la mia bella stagione al Varese. Esordii con la squadra maggiore nella finale contro la Jugoslavia, l’8 giugno, all’Olimpico. Fino a quel momento non avevo mai giocato. Il ct mi chiamò e mi disse negli spogliatoi: ‘Tocca a te’. Senza aggiungere altro.

Finì 1-1: i supplementari non bastarono, ed allora non erano previsti i rigori

Quella Jugoslavia era una grandissima squadra, in quella partita avrebbe meritato di vincere 3-0.

Si andò alla replay, due giorni dopo. E Valcareggi, a proposito di rivoluzioni, ebbe il coraggio di rivoluzionare la squadra

Il ct cambiò cinque uomini ed andò bene. Dopo il vantaggio di Riva, segnai il raddoppio: De Sisti mi passò palla al limite dell’area. Un po’ la stoppai, un po’ si alzò da sola. Colpii in semirovesciata e venne fuori un gran gol. In quel gesto mi guidò anche l’incoscienza giovanile.

Cosa ha significato per lei quel trionfo?

Tantissimo. Avevo 20 anni, ero alla prima esperienza con la Nazionale A. Arrivare in azzurro e disputare una finale da giocatore della Juventus o dell’Inter poteva essere ‘normale’, non certo per un giocatore del Varese. Realizzare il gol che consacra l’Italia campione d’Europa è una cosa che ti porti dentro per tutta la vita, perché sai che verrà ricordata per sempre. L’Europeo ci poneva ai vertici del calcio mondiale e poneva le basi per Messico 1970, dove l’Italia continuò a fare bene arrivando alla finale con il Brasile.

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Regolamentari e supplementari si conclusero sullo 0-0. La vincente venne decisa con il lancio della monetina. Io ero in tribuna. Al fischio finale le squadre rientrarono tutti negli spogliatoi. Vedemmo Facchetti uscire sventolando la maglietta. Dicevano che Giacinto, nei sorteggi, era sempre fortunato. Si raccontava che la monetina venne lanciata due volte perché nel primo lancio rimase bilico in una fessura del pavimento.

Com’era il suo rapporto con Valcareggi?

Buonissimo. Io ero un ragazzino, il più piccolo del gruppo. Per me Ferruccio è stato come un padre.

Perché l’Italia quattro volte campione del mondo non è più riuscita a vincere un Europeo?

Sono le cose inspiegabili del calcio. Ma si deve prendere quello che arriva. Ci andammo di nuovo vicini nel 2000, con l’Italia di Zoff, che fino al recupero stava vincendo. Ma la Francia ci raggiunse con Wiltord e poi nei supplementari completò la rimonta con Trezeguet.

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Una cosa tristissima. E che fa rabbia. Senza togliere nulla alla Svezia, penso che una Nazionale come la nostra non possa non giocare una fase finale del Mondiale. Resterà una macchia difficile da cancellare.

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