Referendum Giustizia. De Chiara: “È un danno se vincono i Sì, la riforma la fa il Parlamento”

Aldo De Chiara

CASERTA (Gianmaria Roberti) – Magistrato in quiescenza, con trascorsi a Napoli, da pm in prima linea contro i reati ambientali, e da avvocato generale presso la Corte d’Appello di Salerno. Aldo De Chiara non ha problemi a collocarsi nell’area del No ai cinque quesiti del referendum sulla giustizia. Una convinzione maturata da profondo conoscitore del diritto, e maestro per intere generazioni di candidati al concorso in magistratura, formati nei suoi corsi di preparazione, quando ancora il Csm concedeva ai magistrati tale facoltà. Ma sulla consultazione referendaria, lui ci tiene a fare una precisazione. “Le mie motivazioni – spiega – non sono espressione di una posizione di ogni rifiuto della riforma della giustizia italiana, la quale – lo diciamo da decenni – presenta punti critici che hanno cagionato vari danni. Ma che devono essere superati dal Parlamento, con leggi meditate e il più possibile partecipate. dall’elettorato, attraverso un dibattito pubblico e un’informazione approfondita”.

Quale clima avverte intorno al referendum in programma domani?

Devo fare una premessa.

Dica pure.

Il referendum abrogativo è uno strumento che va condiviso nella sue finalità di fondo, quale strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica, tuttavia secondo me è stato concepito perché l’oggetto di esso fosse chiaro a tutti. Per cui agevolmente, il cittadino anche non esperto della materia potesse dire sì o no. Purtroppo, negli ultimi decenni, l’istituto ha avuto uno sviluppo che non è andato nella direzione cui facevo riferimento, bensì, nell’ottica di sostituire le inerzie parlamentari, di sostituirsi appunto ad un provvedimento legislativo ritenuto necessario, ma mai concepito dal Parlamento.

Questo in linea generale. Questa consultazione sulla giustizia, come sa, presenta aspetti molto peculiari.

Con riguardo a questi quesiti sulla giustizia, io dico che una tematica così complessa richiede una riforma da parte del Parlamento, che peraltro è già al suo esame. Non si può pensare che l’esito del referendum, soprattutto se dovesse essere abrogativo, risolverebbe in maniera adeguata i problemi che nella giustizia italiana pure ci sono, e nessuno li vuole negare.

Bene. Ma facciamo un esempio pratico di quanto, per lei, si presenta come più problematico.

Considero uno su tutti i cinque quesiti referendari, quello che ha ad oggetto l’abrogazione di una delle tre condizioni perché possa adottarsi una misura cautelare in carcere. Premesso il principio della presunzione di innocenza, quando ci sono gravi indizi di colpevolezza e ci si trova in presenza di un fatto grave, addebitato a un soggetto che presenta precedenti specifici, io credo che ragionevolmente si possa ritenere in linea con le finalità del processo penale – l’accertamento della verità – una misura cautelare in carcere.

Questa formulazione astratta è necessaria per inquadrare il tema. Ma come la calerebbe nella realtà di oggi?

Negli ultimi giorni assistiamo ad episodi di cronaca nera gravissimi. Soggetti già condannati per reati della medesima indole, perpetrano reati ancora più gravi, che non avrebbero potuto commettere se fossero stati privati della libertà personale. Questo è un dato che va evidenziato.
C’è chi, di fronte a queste argomentazioni, rivendica però il rispetto delle garanzie, per i soggetti in attesa di giudizio. Lei lo sa bene.
Non si tratta di non considerare le garanzie difensive, perché altrimenti non vedo per quale ragione non si sia esteso il referendum anche alle altre due condizioni per l’adozione di misure cautelari in carcere. Dico il pericolo di fuga e il pericolo di inquinamento della prova. Mi pare anche irragionevole che il quesito, delle tre condizioni, voglia abrogarne solo una, quella del pericolo di reiterazione per reati della medesima indole, quando si superi una certa soglia di gravità e sussistano gravi indizi di colpevolezza.

E degli altri quesiti, cosa non la convince?

Sulla Severino, capisco le perplessità per la legge in questione, nella parte in cui prevede l’incandidabilità o la sospensione dell’amministratore locale anche non condannato in via definitiva. Però ricordiamoci che questo provvedimento legislativo ha avuto lo scopo, fra gli altri, tutti condivisibili, di colmare le inerzie dei partiti politici, che hanno candidato soggetti che qualcuno ha ritenuto impresentabili. Quindi è in qualche modo una spinta a una moralizzazione della vita pubblica.

Insomma, per lei una funziona positiva la esercita comunque, la legge Severino.

Peraltro, bisogna osservare che se una vicenda il cui rilievo penale è stato riconosciuto in primo e in secondo grado, viene poi negato in Cassazione, non è detto che non abbia profili di inopportunità.

E cosa dice sul quesito relativo alla separazione delle carriere dei magistrati, su cui le toghe sono sempre state critiche?

Non sta né in cielo né in terra. Purtroppo per separare le carriere occorre una riforma costituzionale. Perché secondo la nostra Costituzione, pubblico ministero e organo giudicante sono una unica carriera. Peraltro, dal punto di vista generale, ritengo che il pubblico ministero debba rimanere nell’orbita della giurisdizione, perché questo non può che giovare alla imparzialità del giudice e a una maggiore indipendenza del pm.

Il nodo sembra sempre quello dell’indipendenza, in pratica.

Perché si teme ragionevolmente che ove si consolidasse la separazione tra pubblico ministero e giudice, alla fine il pm sarebbe attratto nell’orbita del potere esecutivo. Il che mi sembra che sia una cosa da evitare.

E se mai un giorno si arrivasse davvero a tale separazione delle carriere?

Posso solo aggiungere che in altri ordinamenti giuridici, in cui il pubblico ministero è collocato nell’orbita del potere esecutivo, si sta pensando all’attuale modello italiano.

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