Riscattare Napoli? Partiamo dai cani

Enrico Parolisi

In questi giorni – complice la tremenda morte di Giò Giò e gli altri casi di cronaca che hanno visto minori protagonisti – si fa un gran parlare di questa impellente necessità, di questo “particolare” concetto di riscatto di Napoli. Sono giorni, però, che mi chiedo questo riscatto di Napoli cosa significhi. Da cosa deve partire. Cosa rappresenti nei fatti, nei gesti e nelle opere da compiere. Soprattutto, Napoli deve riscattarsi… da cosa? Non è Napoli che ha armato un sedicenne che ha ritenuto normale esplodere tre colpi di pistola all’indirizzo di un giovane per un problema con i motorini. Napoli è quel sistema in cui questo episodio a sé stante nasce. Quello sì.

Ok e quindi come la vogliamo riscattare ‘sta città? Cioè, ok, ora che abbiamo dato l’estremo saluto e mostrato che siamo delle brave persone, che abbiamo riempito la piazza del Gesù nuovo, ecco, il prossimo passo di questo riscatto qual è?

Non voglio credere che passi per la “dura risposta dello Stato”, il cosiddetto dl Caivano che una destra rivedibile in tante cose ma non nel populismo spiccio ha promosso ritenendo che per combattere le devianze giovanili bisogni togliere ai piccoli mascalzoni il cellulare, poi dimezzare la paghetta e nella peggiore delle ipotesi a letto senza cena. Anche perché c’entra poco con questo riscatto.

Allora cosa riscattiamo? Vogliamo mostrare che siamo più i buoni che i cattivi? Mi sembra infantile. Vogliamo sconfiggere la criminalità? E che facimm’, tutti i poliziotti? Vogliamo far sì che i giovani non si uccidano più? Bisogna investire in cultura e istruzione, certo, ma non è che dicendo che dobbiamo riscattare Napoli risolviamo problemi che ci portiamo avanti dal ’60. Anche le istituzioni che vogliono riscattare Napoli del resto hanno da decenni le mani legate, non dicono così?

Vogliamo una città migliore? E come lo perseguiamo questo obiettivo?

Allora dirò una ca**ata anche io visto che ci siamo: a me piace pensare che il riscatto di Napoli passi per quelle cose tipo avere una città più vivibile in cui si creino le condizioni per essere tutti meno cattivi. Meno esauriti. Più propensi a stendere una mano al prossimo. Ed è anche in questo che vedo la sedicente Napoli accogliente nelle sue plastiche dimostrazioni di strafottenza. Da un po’ ho deciso di ribellarmi al degrado a modo mio: ho deciso che tutti quelli che portano a pisciare il cane sotto casa mia (una traversa che si presta bene alla diuresi dei nostri amici a 4 zampe, probabilmente perché isolata e senza uscita) mi devono una spiegazione sul perché ritengono normale lasciarmi deiezioni canine fuori la porta e fioriere pesantemente orinate dal nauseabondo miasma. In questa mia piccola e pericolosa indagine ho scoperto che la maggior parte degli intervistati giustifica tale gesto (non sto scherzando e non sto mentendo) col fatto che “Napoli è il cesso”.

Capito? Loro portano il cane a pisciare sotto casa mia e la colpa è di Napoli. Questa idiosincrasia mi sta devastando. Una intera città urla al riscatto ma non riesce a non rendere le vie del mio quartiere un immondezzaio dando la colpa alla città stessa. Come è possibile? Sì, allora: raccontiamoci la solita storia dei pochi che fanno fare brutta figura ai molti. Ma la verità è che non esiste riscatto perché Napoli non sa da cosa deve riscattarsi. Questo insieme complesso di anime accomunate dal fatto di vivere in un posto, nel male e nel meno male, potrebbe però sicuramente iniziare a reclamare nel suo piccolo di vivere meglio, accampando diritti come decoro, sicurezza e sostenibilità, finanche inezie come una viabilità da città educata. E allora forse sì che qualcosa potrebbe cambiare. Nel piccolo. Nel quotidiano. Da noi. Senza slanci non definiti da pulpiti improvvisati.

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