Strage di via D’Amelio, i giudici: “Fu depistaggio di Stato”

Nel mirino il poliziotto Arnaldo La Barbera, poi defunto. Avrebbe imbeccato falsi pentiti per ricostruire la fase esecutiva dell'attentato. Per la Corte però aveva ricevuto informazioni vere da responsabili rimasti occulti

Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico

CALTANISSETTA – Hanno del clamoroso le motivazioni depositate ieri sera dai giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta, in merito al processo denominato “Borsellino quater” sulla strage di via D’Amelio. La sentenza fu emessa oltre un anno fa: furono condannati all’ergastolo Salvino Madonia e Vittorio Tutino, mentre rimediarono 10 anni per calunnia i finti collaboratori di giustizia Francesco Andriotta e Calogero Pulci.

Una motivazione di 1.865 pagine

Agghiacciante la conclusione dei giudici che hanno redatto le 1.865 pagine della motivazione della sentenza emessa nell’aprile dello scorso anno: “Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Secondo i giudici, gli inquirenti titolari dell’inchiesta imbeccarono piccoli delinquenti per farli diventare gole profonde in grado di fare chiarezza sulla strage del 19 luglio 1992, nella quale morirono il magistrato Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Per i giudici gli inquirenti utilizzarono i finti collaboratori di giustizia per ricostruire a tavolino le fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a 7 innocenti. Per Vincenzo Scarantino, il pentito più discusso e protagonista di ritrattazione in 20 anni di processi, fu dichiarata la prescrizione nonché le attenuanti previste per chi viene indotto a commettere reati da altri.

Investigatori mossi da “proposito criminoso”

I giudici, nella motivazione della sentenza, puntano il dito contro gli investigatori. In particolare contro il leader del gruppo che si occupò delle indagini: Arnaldo La Barbera, funzionario di polizia poi deceduto. Lui e i suoi uomini avrebbero indirizzato l’inchiesta, tanto da costringere Scarantino a dichiarare una falsa versione della fase esecutiva dell’attentato. Non solo. Per i giudici il pool di investigatori avrebbe esercitato “in modo distorto i poteri”, mosso da “un proposito criminoso”; tanto da compiere “forzature, rappresentate anche da indebite suggestioni e un’impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi; tutti radicalmente difformi dalla realtà, se non per l’esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte”.

La fonte occulta

La Corte va anche oltre, cercando di capire perché gli inquirenti abbiano agito in questo modo. L’ipotesi principale avanzata dai giudici riguarda la copertura di fonti rimaste occulte. In quanto, secondo i giudici, i collaboratori di giustizia “sono stati imbeccati con informazioni estranee alle loro conoscenze, ma che si sono rivelate successivamente corrispondenti alla realtà”. In pratica gli stessi investigatori hanno fornito ai pentiti le informazioni che avrebbero dovuto svelare, notizie vere e che, quindi, erano state fornite da persone che sapevano come erano effettivamente andate le cose. Da qui il sospetto più inquietante e cioè che gli investigatori, in questo modo, abbiano “occultato le responsabilità di altri soggetti nella strage di via D’Amelio, probabilmente protagonisti di un connubio tra Cosa Nostra e altri centri di potere e che hanno cercato di depistare i pm”.

Il mistero dell’agenda rossa

E allora ecco che i giudici tornano sull’argomento più scottante e che aveva subito insospettito gli inquirenti: la scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino. Il diario del magistrato fu sottratto dalla sua borsa subito dopo l’attentato. Qualcuno non voleva che fossero rese note le informazioni che conteneva. I giudici, nelle motivazioni, fanno riferimento ancora a La Barbera, indicandolo come possibile responsabile della sparizione o, comunque, come persona informata sull’occultamento dell’agenda rossa; tanto da essere protagonista di un duro scontro verbale sulla questione con Lucia Borsellino, figlia del magistrato vittima della mafia. Interrogativi e sospetti che difficilmente avranno risposte visto che La Barbera è morto e l’inchiesta sulla sparizione dell’agenda rossa è stata archiviata.

Nonostante ciò la Procura di Caltanissetta punta a fare luce sulla vicenda dopo aver scoperto il depistaggio realizzato oltre 26 anni fa. Questo grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gabriele Spatuzza. Anche perché se è vero che La Barbera è morto, ci sono ancora i poliziotti che facevano parte del suo pool. Nei loro confronti è già in fase avanzata una nuova inchiesta. Per fare luce su ciò che è realmente accaduto e su chi aveva interesse a ‘mettere a tacere‘ ciò che Borsellino aveva scoperto.

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