La camicia di Nesso

Viviamo in una nazione teoricamente di ispirazione liberale ma cripto socialista nella pratica di governo, almeno fin dagli anni Sessanta del secolo scorso allorquando ai governi centristi, guidati in prevalenza dallo statista Alcide De Gasperi (e dai suoi epigoni), subentrarono quelli di centrosinistra. Con l’esecutivo capitanato da Aldo Moro (con vice presidente il socialista Pietro Nenni), le cose, per il nostro Paese, cambiarono radicalmente e lo statalismo prese il sopravvento nell’impostazione delle politiche di bilancio. Le nazionalizzazioni ed i famigerati piani quinquennali d’intervento in ogni settore dell’economia statale, tipica espressione delle teorie di J. Maynard Keynes, smantellarono progressivamente il libero mercato limitando al massimo sia l’iniziativa dei singoli imprenditori, sia la legge di concorrenza, due capisaldi del liberalismo economico. Insomma: un ossimoro che scompensava, a vantaggio dello Stato, l’equilibrio tra pubblico e privato che i costituenti avevano sancito nella Magna Carta. In quegli anni gli esecutivi di centrosinistra seppero incunearsi a loro piacimento nei margini di indeterminatezza e di ambiguità che si celavano nella Costituzione, relativamente al modello socio economico ipotizzato per la nascente Repubblica, caricando lo Stato di compiti e funzioni con leggi a dir poco di dubbia costituzionalità. Dove ci abbiano, poi, portato quelle norme ed il pesante gravame di spesa pubblica che ne è conseguito (come portato socio economico delle politiche di governo), lo abbiamo sperimentato ai tempi nostri. La spesa per interessi passivi ha raggiunto, infatti, circa 100 miliardi di euro all’anno su di un debito stratosferico conseguente all’allegra gestione politico assistenziale e clientelare che ne è derivata. Dopo tre quarti di secolo, tuttavia, stiamo cominciando finalmente ad avere la percezione dei guasti provocati in un’economia condizionata dallo Stato e dalle plurime compartecipazioni di quest’ultimo in circa diecimila aziende. Lo stesso dicasi per l’iperplasia della burocrazia statale ridondante ed inefficiente, dei mille enti inutili che la spalleggiano, della miriade di associazioni di categoria e delle sigle sindacali che nel complesso fanno del Belpaese una sorta di regno di bengodi. Tutti uniti, a vario titolo, per mangiare alla greppia delle provvigioni statali. Affidato alla critica divoratrice dei topi, che frequentano le soffitte di Palazzo Chigi, con la loro pletora di addetti (che assommano a circa cinquemila unità), il piano commissionato all’economista Carlo Cottarelli, per il taglio dei rami secchi nelle partecipate e la soppressione degli enti inutili. Solo in queste ore il governo presieduto da Mario Draghi, sotto l’imperio delle regole dettate dalla Ue – che ha allargato munificamente i cordoni della borsa per soccorrere le disastrate casse del tesoro italiano, con un maxiprestito di 200 miliardi di euro – elabora il Piano Nazionale di Recupero e Resilienza (Pnrr). Un piano che dovrebbe rilanciarel’economia tricolore in uno con una profonda revisione di taluni leggi che riguardano diversi ambiti di settori: dalle infrastrutture alla funzionalità della pubblica amministrazione, dallo sviluppo di energia pulita (ed a basso costo) alla tutela dell’ambiente, dalle regole che governano l’esercizio delle professioni liberali, all’acquisto di beni e servizi da parte dello Stato. Insomma un riformismo spinto che dovrebbe porre fine alle tante nicchie di privilegio pubblico e privato che allignano nelle mille pieghe di una nazione fatta di corporazioni e di baronie. Ci sarebbe di che stare allegri di fronte alla prospettiva che finalmente sta per rispuntare il sole della concorrenza, del merito e della gestione efficiente di un comparto altrimenti affidato ai mille vincoli politici e clientelari che connotano l’economia statalizzata, con la sua “golden share” a farla da padrone nelle aziende partecipate. E tuttavia così non è se non per buttare un po’ di fumo negli occhi a Bruxelles. Il condensato di questa manfrina compare, infatti, nel cosiddetto Decreto concorrenza che di recente il Consiglio dei Ministri ha licenziato. Le regole da cambiare e le procedure da innovare, sono quasi tutte a carico delle imprese e delle attività private, quasi che su quel versante, e solo su quello, si fosse consumato lo statalismo italiano con la sua montagna di debiti. Merito, economicità e concorrenza si accentuano in prevalenza sul versante sbagliato. I gangli dello Stato restano saldi ed immutati. Ciò che è gestito dai monopoli, resta com’è sempre stato. Sanità, giustizia, pubblica amministrazione, fisco, aziende statali, trasporti, produzione e distribuzione dei beni. Una camicia di Nesso che deve indossare solo chi produce ricchezza ed intraprende liberamente. Intrisa del veleno dell’ipocrisia e della politica politicante, finirà per aggravare il carico di vincoli e di regole, paralizzando rendendo impotente finanche il mitico Ercole.

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