Le divisioni del Papa

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

È dal medioevo che gli stati sovrani utilizzano il concetto di “guerra giusta” per promuovere un conflitto con finalità di difesa dei propri legittimi interessi, garantiti dalle leggi e dalle consuetudini internazionali, oppure per motivi di carattere superiore che esulano l’ottica di tutela di questioni particolari. Tipiche furono le Crociate contro i musulmani, guerre con matrice religiosa definite addirittura sante, invocate sia dalla Chiesa sia dagli stati cattolici, per liberare i luoghi sacri caduti nelle mani degli “infedeli”. Lo stesso vale, ancora ai nostri giorni, per la Jihad islamica, la guerra santa proclamata dalle frange integraliste musulmane che non riconoscono la libertà religiosa ed intendono convertire alla sharia intere comunità e stati sovrani. E’ contro questa guerra, sfociata anche in atti terroristici contro le società occidentali, la loro cultura ed i costumi moderni, che si è organizzata l’ultima delle “guerre giuste“.

Battezzata come operazione di polizia internazionale per la ricerca della pace da ottenersi attraverso la lotta al terrorismo sanguinario. Altre guerre passate alla storia con altro nome, sempre combattute sotto l’egida della comunità internazionale (leggi Onu), furono quelle del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein che si era annesso il Kuwait, quelle in Bosnia ed in Kossovo per porre fine al genocidio etnico nella ex Jugoslavia. E poi: gli interventi in Libia, Siria, Eritrea, Somalia, ecc. ecc., alcuni programmati allo scopo di creare una forza di interposizione tra i contendenti, altri a sostegno di coloro che rivendicavano diritti civili e libertà contro regimi sanguinari e tirannici.

Ovviamente le ragioni addotte spesso sottendevano anche altri scopi ed interessi delle due grandi potenze dell’epoca, l’Urss e gli Usa. Dissoltasi l’Unione Sovietica rimase la sola America che dall’alto del suo formidabile arsenale bellico prese a svolgere, praticamente in solitaria, il ruolo di guardiana del mondo. E’ contro questo ruolo, ritenuto imperialista e pervasivo, che le forze politiche anti americane ed anti capitaliste hanno sempre manifestato, spesso sotto simboli di comodo, il loro pacifismo. Un coacervo di forze, prevalentemente di sinistra, ha puntualmente organizzato proteste, manifestazioni ed appelli di intellettuali per deprecare e condannare quelle che venivano definite guerre degli interessi statunitensi e dei loro alleati.

Solo l’avvento del terrorismo internazionale scatenato dagli estremisti islamici ha mitigato quella sistematica inclinazione critica e protestataria che invocava quasi sempre il disimpegno unilaterale. Ci si affidava a slogan e bandiere che sostanzialmente non analizzavano le cause ed il contesto geo politico né le conseguenze, a tutto vantaggio di un pacifismo invocato in astratto. Così è stato anche per l’ultima delle “guerre giuste”, quella in Afghanistan, almeno nei primi tempi del conflitto, quello, per intenderci, che gli Usa hanno intrapreso da soli dopo l’attentato dell’11 settembre alle torri gemelle.

Quando poi il fenomeno terroristico si è esteso anche ai paesi europei ed ha mietuto vittime sacrificali in ogni nazione, con esecuzioni brutali e sommarie di cittadini inermi, è intervenuta, tardivamente, la resilienza. Comunque sia la “guerra giusta” afghana, durata un ventennio, ha goduto di un unanime consenso d’opinione solo quando l’intero mondo ha rischiato di patire la follia omicida dell’Isis. Ricordarlo oggi è un atto di verità storica e di onestà politica che vuol suonare da monito a tutti quelli che si sono travestiti da profeti disarmati, pensando di realizzare la pace invocando un buonismo ecumenico che alla fine era non solo inutile ma anche partigiano.

Bisognerebbe pubblicare il lungo elenco degli intellettuali e dei critici agli interventi militari ai quali ha partecipato l’Italia ancorché sotto l’egida delle Nazioni Unite, non tanto per metterli alla berlina quando per farli tacere. C’è da scommettere che molti di questi politici, artisti, intellettuali, personalità varie, saranno impegnati in queste settimane a sproloquiare sulle conseguenze nefaste del ritiro delle forze armate dall’Afghanistan. Magari saranno preoccupati per le sorti delle donne sottoposte alle umilianti privazioni della sharia coranica, oppure delle violenze di cui, già in queste ore, si hanno notizie da Kabul. E che dire dei tifosi dei presidenti americani la cui politica di disimpegno dal teatro internazionale era considerata meritevole di encomio?

Lo stesso vale per il Papa gesuita che in San Pietro di tutto si è preoccupato tranne che dell’eccidio dei cristiani. Sovviene a tal proposito un esempio storico sulla vacuità delle parole disarmate. A chi faceva notare a Stalin che Papa Pacelli, Pio XII, aveva condannato fermamente la barbarie nazista, il tiranno di Mosca rispondeva: “quante divisioni armate possiede il Papa?” I buoni propositi spesso non servono a fermare la crudeltà e la barbarie nel mondo.

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