L’illusione del turismo nella retorica politica

Foto Bianchi / Lo Debole -LaPresse

La barbarie politica e culturale che ha attraversato l’Italia negli ultimi trent’anni travolgendo un’intera generazione, ci costringe a tornare su questioni e problemi che apparivano definitivamente superati o risolti. Fra questi il tema del turismo come volano di sviluppo e di progresso del Sud d’Italia e di Napoli in particolare. Intendiamoci, il turismo incarna un ruolo importante nella crescita di un paese o di una città. Sul piano economico, naturalmente, perché (è perfino ovvio ricordarlo) crea ricchezza e lavoro e, mi sia consentito azzardare, ancor più sul piano psicologico giacché ci si sente considerati e gratificati nel vedere il proprio territorio ammirato e amato. Ancora di più a Napoli essendo la città sempre sotto attacco mediatico e talvolta politico. Essendo la città ciclicamente funestata da tragedie che ne offuscano l’immagine e rigenerano i vecchi luoghi comuni negativi: la crisi del colera negli anni 70’, quella dei rifiuti negli anni 2000. La ripresa del turismo ha rappresentato per molti napoletani una rivincita innanzitutto morale nei confronti dei tanti detrattori della città, a cominciare dai tifosi del Nord che ancora oggi danno del coleroso ai tifosi partenopei in trasferta. Ma un conto è rallegrarsi per la oggettiva ripresa dei flussi turistici e un altro è quello di ritenere il turismo il volano della ripresa economica, politica e sociale del Mezzogiorno. Gli ultimi dati, infatti, pubblicati da Cronache mostrano come di solo turismo non si può vivere. E, come cercherò di mostrare, si può addirittura morire. Innanzitutto, si dimentica che l’area metropolitana di Napoli conta più di tre milioni di abitanti e l’intero Mezzogiorno più di venti milioni, come dire il doppio della Grecia o dell’Austria. Un conto, dunque, è pensare di puntare soprattutto sul turismo per lo sviluppo della costa romagnola, Rimini e Riccione, delle isole del golfo di Napoli, Ischia, Capri e Procida, altro è puntare sulle attività turistiche per lo sviluppo di una regione d’Europa così vasta e popolosa come il meridione italiano. Lo slogan: “Potremmo vivere di turismo” è uno slogan che colpisce l’immaginazione, strumentalizza la fascinazione dei bei panorami, del clima mite e delle bontà gastronomiche, ma rimane uno slogan che una certa politica utilizza per nascondere la propria incapacità ad affrontare questioni difficili da risolvere come la costante deindustrializzazione e la crescente disoccupazione giovanile soprattutto intellettuale. In secondo luogo, l’attività turistica per quanto possa essere concepita in modo moderno, per quanto possa essere interpretata secondo criteri razionali e di efficienza industriale, non genera particolare valore aggiunto né economico né sociale né culturale. Un popolo deve aspirare ad avere lavoratori e professionisti di qualità, capaci di interpretare i movimenti della storia, le opportunità e le difficoltà della modernità e della postmodernità. Requisiti che solo una nuova concezione dello sviluppo industriale e un ripensamento del sistema della formazione e dell’informazione possono garantire. E, come la storia ci dimostra, la stessa consapevolezza politica, la civiltà politica vorrei dire, si conquista in presenza di uno sviluppo economico che sia anche progresso culturale e sociale. Lo sviluppo senza progresso è uno dei problemi del nostro tempo e nel Sud d’Italia in modo particolare. Se si pensa, per ricordare un film di successo, che la storiografia ( si fa per dire) si è ridotta a discutere fra la primazia della mozzarella o del gorgonzola (la storiella dei primati del Sud) dimenticando che la storia è sempre storia eticopolitica, ossia storia dei progressi o dei regressi della libertà, della dignità, della civiltà dei popoli, si capirà in quale abisso morale siamo caduti quasi senza accorgercene, in quale declino sociale e politico ci troviamo al quale inevitabilmente segue un declino economico. Insomma, meglio avere un popolo di ingegneri, medici, professori, giornalisti, operai specializzati che un popolo di cuochi. *Docente di Storia della filosofia moderna e contemporanea

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