Intelligenza artificiale, empatia messa da parte

Può sembrare una notizia di poco conto, ma non lo è: qualche giorno fa Google ha annunciato che a breve i risultati delle nostre ricerche online le restituirà con un nuovo algoritmo che si chiama MUM. Acronimo di Multitask Unified Model, il MUM promette di essere “mille volte più performante” (parola di Mountain View) dell’attuale BERT. L’obiettivo finale è quello di essere sempre più bravo a rispondere alle domande dell’utente. Se credete che Google già risponda sufficientemente a ciò che cercate, sappiate che i margini di manovra sono ancora ampi, dato che l’obiettivo ambizioso è rendere Google il più possibile vicino al rispondere al linguaggio naturale di noialtri umani.
Questo ambizioso obiettivo, perseguito dai big player del settore a colpi di aggiornamenti e algoritmi migliorati, ci ribadisce non solo i passi avanti fatti dalle intelligenze artificiali di ogni tipo, ma ci ricorda anche che sempre più frequentemente in futuro si demanderà alle macchine la responsabilità di parlare con gli esseri umani in carne ed ossa.
Intelligenza artificiale è, stando alla perfetta definizione fornita dall’ingegner Marco Somalvico (compianto papà dell’IA in Italia), “i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e sistemi di programmi software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana”.
La questione dell’intelligenza artificiale, di quel futuro che sembrava così lontano e invece è qui, è meno sciocca di quello che sembra, e anche dei nostri piccoli problemi domestici. Dall’algoritmo cinese di riconoscimento facciale in grado di riconoscere – tramite il capillare sistema di videosorveglianza – tra milioni di persone ricercati e criminali (ma potenzialmente anche dissidenti e avversari politici) al deep fake con video fasulli montati ad arte e indistinguibili dai reali, fino alla discriminazione di genere e razza più volte evidenziata dagli studi come rischio dell’autoapprendimento e vittima della polarizzazione. Un tema così importante da essere nell’agenda comunitaria con l’Europa che vuole imporsi come baluardo di una IA sostenibile.
Nel futuro che stiamo vivendo, questa transizione è ancora imperfetta. Fin troppo imperfetta. Ed ogni giorno, senza rendercene conto, viviamo questa debacle sulla nostra pelle.
La viviamo quando un assistente vocale di una nota compagnia telefonica ci impone di chiacchierare svariati minuti con lui tramite assistenza clienti anche quando siamo perfettamente consapevoli che non può essere lui ad aiutarci in quella particolare occasione perché la nostra richiesta non riguarda solo sapere il nostro piano tariffario o il credito residuo. Ma continua lo stesso a insistere perché sia lui a risolvere il nostro problema e non chi altro.
La viviamo quando il noto social su cui passiamo tantissimo tempo rimanda l’assistenza tecnica al 99 percento a sistemi automatici, privandoci della possibilità di esprimere chiaramente lo stesso problema che ci attanaglia da mesi a un altro senziente come noi.
La viviamo quando il noto portale di prenotazione viaggi che abbiamo sempre utilizzato per lavoro decide di rinnovare completamente la piattaforma business e, se lamenti il fatto che sia diventata ingestibile, ti avvisa che tutti i cambiamenti “sono stati condivisi con gli utenti preventivamente che hanno dimostrato di apprezzarli”. Amen, che non puoi più modificare personalmente la carta di credito inserita a garanzia per un tuo dipendente: gli utenti hanno preventivamente dimostrato l’apprezzamento.
L’eccesso di intelligenza artificiale non sembra così intelligente. Conti alla mano, è vero, si risparmia parecchio. Si prenda la compagnia telefonica di cui sopra: ma sai che risparmio ad avere la vocina elettronica anziché i dipendenti in call center, già in parte su territorio straniero. Ma forse è ancora presto per soppiantare l’empatia, il problem solving e la capacità dell’umano di ascolto.

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